Conoscete Callimaco? Ve lo presento: è un amante meschino. Che approfitta della credulità di un dotto in legge per fregarli la moglie. Vi stupite che parta da qui per raccontarvi – a mio modo – ciò che penso e sento del pomodoro. Ciò che ci regala il pomodoro. Parto da qui perché attorno al pomodoro si consuma in questa nostra epoca distratta, disperante per molti versi, un adulterio bello e buono. E dunque non trovo di meglio che partire da una commedia che andrebbe mandata a memoria nella scuole del mio conterraneo Nicolò Machiavelli: la Mandragola. Che – sia detto per inciso è parente assai stretta del pomodoro – essendo una solanacea. Mi pare infatti che attorno al pomodoro si stia consumando uno sciocco adulterio e noi non siamo affatto nei panni di Callimaco, ma piuttosto del marito beffato messer Nicia, mentre Lucrezia è sicuramente la nostra sciocca surmodernità e il frate paraninfo, fra’ Timoteo, può essere la comunicazione, l’avidità, la globalizzazione. Ecco parto da qui dalla globalizzazione per spiegare come il pomodoro che è frutto (sì è un frutto) emblema di quella globalizzazione che si produsse tra la fine del ’400 e l’inizio del ’500 oggi sia vittima di una nuova globalizzazione che però si porta dietro l’omogeneizzazione. È credenza comune che il pomodoro sia italiano e che sia rosso. Non è né italiano né tanto meno rosso. E non è neanche un frutto di così eterna diffusione. Basta che io vi dica che, dopo l’arrivo dalla Spagna in Sardegna e a Napoli negli anni Quaranta del Cinquecento, salutato con una certa diffidenza, furono forse i garzoni del porto di Trapani i primi, in Italia e siamo già oltre la metà del XVI° secolo, a dare un morso a quei frutti che allora erano di colore arancione. È un destino comune a buona parte delle solanacee alimentari (le melanzane, i petonciani dell’Artusi, il peperone e il peperoncino, perfino le patate) quello d’esser state per prima cibo (clandestino) per i cafoni. Sarà perché imparentate anche con la Mandragola o perché effettivamente hanno delle sorelle venefiche che queste piante hanno conosciuto destini avversi e contraddittori. E oggi subiscono attacchi pesantissimi. In campo e in cucina.
È indubbio tuttavia che il pomodoro abbia avuto percorsi ancor più tortuosi. Vi basti pensare che nel ‘500 Pietro Mattioli (a cui si deve il nome che noi in Italia ancora utilizziamo) li considerava velenosi e ammetteva però d’aver notizia che qualcuno li mangiasse. Che fossero i facchini trapanesi è molto probabile, che il primo modo di mangiarli fosse di friggerli è altrettanto documentato. Ma vedete come va la storia. Il buon Antonio Latini lo sdogana per la prima volta in una ricetta da farsi in tegame con altre verdure (una sorta di friggione, visto che stiamo in Emilia, codificata nel suo Scalco alla Moderna) portando alla corte del Viceré una preparazione di popolo, toccherà poi a Vincenzo Corrado ( Il Cuoco Galante) e a Ippolito Cavalcanti (Cucina teorico pratica) consacrare la napoletanità del pomodoro creando un luogo comune. In Italia andò così dal popolo alla corte, in Francia andò al contrario. I pomodori li consumavano solo a corte e perché erano convinti che fossero i pommes de l’amour cioè afrodisiaci ed era uso galante in Francia che il cavaliere in fregola offrisse alla dama dei pomodori. Francia ed Italia furono del resto le terre di maggior diffusione del pomodoro, anche se l’Italia grazie agli studi di Lazzaro Spallanzani fu la prima nazione dove la conserva ebbe la sua praticabilità. Raccontata così la storia del pomodoro – la purpurea meraviglia per dirla con Umberto Saba – si presterebbe a Fate Morgane dell’immaginazione, della leggenda. Insomma si può mitizzare il pomodoro. E il mito oggi è un ingrediente fondamentale nella costruzione di una attrattiva. Ma ho premesso che il pomodoro oggi è minacciato. Da cosa? Ma da chi lo mortifica – e penso alla cucina molecolare – da chi lo coltiva senza scrupoli e penso all’invasione di pomodori cinesi.
Per noi italiani invece il pomodoro è un marcatore non solo gastronomico (siamo il paese che conta più ricette e non starò qui ad elencarvi dalla Pizza Margherita in giù quante siano le varianti del pomodoro in cucina) ma prima di tutto territoriale e culturale. C’è la credenza che il pomodoro sia un marcatore della cucina meridionale. Non è così: è forse il Nord Italia l’area del paese che ha tributato maggiore onore al pomodoro anche se l’uso popolare si deve come già ho detto alla Sicilia. Senza i conservifici di Parma e senza il signor Cirio il pomodoro non avrebbe avuto la sua diffusione borghese. Ma senza la straordinaria biodiversità italiana il pomodoro non avrebbe avuto le sue svariate forme e colorazioni. È possibile dunque ipotizzare un turismo del pomodoro che unisce le preparazioni gastronomiche alla cultivar italiane. Da Pachino (che italiano non è venendo da Israele ma qui si è acclimatato) alla Sardegna, dal Sanmarzano al costoluto, dal cuore di bue all’insalataro, dal pomodoro del piennolo o vesuviano al perino si potrebbe disegnare una geografia del pomodoro in Italia e potrei mettere insieme la mia toscanissima pappa al pomodoro con il ragù bolognese, i pomodori essiccati con la pizza, le sarde al pomodoro con le lumache al verde (Sicilia e Sardegna) la conserva alla piemontese con i carciofi al pomodoro veneti, il picchio pacchio orciano (le uova col pomodoro) al risotto al pomodoro diffuso in tutta l’area padana. Insomma dalla fettunta ai sartù, dalla padellata di verdure ai pomodori verdi fritti l’Italia è grondante di pomodoro. Ma oggi è minacciata nella sua biodiversità dalla globalizzazione. E anche dalla poca comunicazione che attorno al pomodoro si è fatta considerandolo una commodities mentre ogni gourmet sa che ogni pomodoro ha una storia a sé, una ricetta a sé, una consistenza a sé. Credo che sarebbe necessario oggi ritornare a considerare le varietà dei pomodori per ciò che esse danno sapendo che un Fandango non è un Roma, che un Matador non è un Ventura, che un verde non è un rosso, che un arancione non è un bianco e che un viola è oggi il pomodoro della nuova frontiera della biomedicina.
Eppure il nostro pomodoro, questo frutto dell’amore ma anche questo amor di frutto, si trova ad essere attaccato e negletto. Credo che tre cose si dovrebbero fare:
- Diffondere la conoscenza dei pomodori in rapporto agli usi di cucina e ai terrori;
- Conservare il germoplasma della nostra straordinaria biodiversità;
- Dare al pomodoro una funzione di marcatore territoriale per rispettarne il valore antropologico culturale, per preservarne il legame con l’agricoltura di specialità, per esaltarne il valore economico.
Non è infatti follia pensare alle strade del pomodoro, ai sommelier del pomodoro, ai ristoranti del pomodoro. È possibile un circuito della valorizzazione delle diversità per evitare che Callimaco sotto le mentite spoglie della globalizzazione s’infili nel letto di Lucrezia, la nostra identità, che perde proprio come l’amante di Machiavelli la sua purezza, vittima degli intrighi della surmodernità.
Carlo Cambi
Presentato il 25 settembre 2010 in occasione della inaugurazione del Museo del Pomodoro