Il pomodoro a Parma

«Pomo d’oro, cosiddetto volgarmente dal suo intenso colore, overo pomo del Perù, quale o è giallo intenso overo è rosso gagliardamente […] ancora lui da ghiotti et avidi de cose nove è desiderato […] ma al mio gusto è più presto bello che buono». Così Costanzo Felici in una lettera a Ulisse Aldrovandi del 10 marzo 1572. Medico e naturalista, Costanzo Felici, attento anche ai prodotti che erano giunti in Europa dal Nuovo Mondo, indicava così le due qualità di pomodori, giallo intenso e rosso gagliardamente, frutto «desiderato da ghiotti e avidi de cose nove» benché, a suo giudizio, fosse «più presto bello che buono».

Anche Castor Durante nel suo Herbario nuovo (1585) conosce le specie gialle e rosse e pur sapendo che «i pomi d’oro mangiansi nel medesimo modo che le melanzane con pepe, sale e olio» aggiunge «danno poco o cattivo nutrimento». 
Dunque in quegli anni del secondo Cinquecento, il pomodoro è ancora del tutto marginale nell’alimentazione, anzi visto con sospetto, da alcuni ritenuto addirittura malsano, da altri invece afrodisiaco. Da questa seconda presunta qualità – o piuttosto, come si legge nel Tesoro Messicano, per avere in certe sue specie forme che evocano organi sessuali maschili e femminili – si deve il nome con il quale spesso è chiamato: «pomo d’amore», «pomme d’amour», «love apple», «Liebes apfel». Al colore giallo di alcune specie deve invece il nome di ‘pomo d’oro’: Pietro Andrea Mattioli nella prima edizione del suo commento a Dioscoride (1574) conosce solo la qualità gialla, nella seconda, dieci anni dopo, anche la qualità rossa: «in alcune piante rosse come sangue, in altre di color giallo d’oro». Di qui il termine da lui usato ‘mela aurea’ o ‘pomi d’oro’. Il riferimento alle mele d’oro dell’orto delle Esperidi è evidente.

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Conoscete Callimaco? Ve lo presento: è un amante meschino. Che approfitta della credulità di un dotto in legge per fregarli la moglie. Vi stupite che parta da qui per raccontarvi – a mio modo – ciò che penso e sento del pomodoro. Ciò che ci regala il pomodoro. Parto da qui perché attorno al pomodoro si consuma in questa nostra epoca distratta, disperante per molti versi, un adulterio bello e buono. E dunque non trovo di meglio che partire da una commedia che andrebbe mandata a memoria nella scuole del mio conterraneo Nicolò Machiavelli: la Mandragola. Che – sia detto per inciso è parente assai stretta del pomodoro – essendo una solanacea. Mi pare infatti che attorno al pomodoro si stia consumando uno sciocco adulterio e noi non siamo affatto nei panni di Callimaco, ma piuttosto del marito beffato messer Nicia, mentre Lucrezia è sicuramente la nostra sciocca surmodernità e il frate paraninfo, fra’ Timoteo, può essere la comunicazione, l’avidità, la globalizzazione. Ecco parto da qui dalla globalizzazione per spiegare come il pomodoro che è frutto (sì è un frutto) emblema di quella globalizzazione che si produsse tra la fine del ’400 e l’inizio del ’500 oggi sia vittima di una nuova globalizzazione che però si porta dietro l’omogeneizzazione. È credenza comune che il pomodoro sia italiano e che sia rosso. Non è né italiano né tanto meno rosso. E non è neanche un frutto di così eterna diffusione. Basta che io vi dica che, dopo l’arrivo dalla Spagna in Sardegna e a Napoli negli anni Quaranta del Cinquecento, salutato con una certa diffidenza, furono forse i garzoni del porto di Trapani i primi, in Italia e siamo già oltre la metà del XVI° secolo, a dare un morso a quei frutti che allora erano di colore arancione. È un destino comune a buona parte delle solanacee alimentari (le melanzane, i petonciani dell’Artusi, il peperone e il peperoncino, perfino le patate) quello d’esser state per prima cibo (clandestino) per i cafoni. Sarà perché imparentate anche con la Mandragola o perché effettivamente hanno delle sorelle venefiche che queste piante hanno conosciuto destini avversi e contraddittori. E oggi subiscono attacchi pesantissimi. In campo e in cucina.

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Il cibo è un prodotto della cultura del territorio, della memoria della sua comunità, dei suoi saperi pratici e delle sue abilità artigiane.

Il cibo – come ci ricordava Tullio Gregory – appartiene alla cultura di una comunità, di cui è strumento di senso e di identità. Ne è prova il fatto che alcune comunità considerano cibi prelibati ciò che per altre è disgustoso; ne è prova l’evoluzione socio-economica che è andata di pari passo con l’evoluzione delle abitudini agro-alimentari – come Leone Arsenio ha ben delineato – o, ancora, il fatto che il cibo è – nella nostra società – un mezzo di convivialità.

I prodotti tipici di un territorio rappresentano le opere d’arte della sua gente che li crea a partire da pochi elementi base forniti dalla natura; sono sculture lavorate dalla memoria di una comunità e rese eccellenza.

Se il prodotto tipico è un’opera d’arte, un museo è la sua casa; ma un museo che vive del territorio e della sua vitalità, territorio che il museo può e deve contribuire a rinvigorire, come Calo Cambi ha giustamente sottolineato.

Originario dell’America del Sud, il pomodoro fu introdotto in Europa dagli Spagnoli nel XVI secolo, non come ortaggio commestibile, ma come curiosità ornamentale. Nel Settecento se ne sperimentò l’uso in cucina e in Sicilia si cominciò ad affettarlo, seccarlo e a farne ‘sugo ristretto’ che asciugava al sole: la ‘conserva nera’ in pani.

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