Di Giancarlo Gonizzi
Attraverso l’Atlantico
Il mare pareva di velluto, marezzato e cangiante fino alla linea d’orizzonte. Il giovane Francesco Emanuele scese dal treno, che dalla pianura assolata e rovente d’agosto l’aveva portato fino a Genova, e si diresse, giù, verso il porto.
Le strade si facevano via via più strette e animate. Al molo gran folla di parenti assisteva all’imbarco di famigliari e congiunti.
Dal ponte del Duca di Genova l’assembramento assumeva la sua vera dimensione. Si era nel 1922. Certo, erano ormai passati gli anni in cui a migliaia gli emigranti attraversavano l’oceano per raggiungere l’America in cerca di lavoro e di fortuna. Quell’Italia, unita politicamente dall’impresa di Garibaldi, non riusciva ancora a sfamare tutti i sui figli. Dal 1880 al 1915 se ne erano andati Oltreoceano in sette milioni, per lo più provenienti dal Meridione, dalle Isole, ma anche dai villaggi delle Alpi e degli Appennini. Solo due milioni erano tornati.
Impossibilitati a vivere in Patria dalla crisi, dalle trasformazioni fondiarie e dal ribaltamento dei mercati, “cafoni” del Sud e contadini del Nord, trasformati in una amorfa manovalanza, reclutata dai “sensali di carne umana“, si imbarcarono, “fissi come sardelle” sui tremendi bastimenti delle rotte oceaniche. Essi speravano innanzitutto nel riscatto dalla fame. In gran parte analfabeti, non possedevano che la cultura della povertà. Quella dolorante, paziente e tenace fiumana ebbe una parte di rilievo nella colonizzazione delle terre americane e nella ristrutturazione delle loro economie. Molti emigrati soccombettero; molti, delusi, rientrarono in patria; altri, racimolato quanto era sufficiente per comprare al paese un campo, disertarono quella dura vita di frontiera; i più tennero duro e lentamente rimescolati in quel “crogiuolo di razze” divennero protagonisti di una nuova storia economica e civile.
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