Le interviste impossibili – A cura di Giovanni Ballarini – Niccolò Paganini e la conserva di pomodoro

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Niccolò Paganini (1782-1840), violinista e compositore fra i più importanti esponenti della musica romantica e ancora oggi circondato da leggende legate al suo prodigioso genio e a un famoso patto col diavolo per ottenere la fama e l’abilità necessaria per suonare il violino, ha molti e stretti legami con Parma.

Nato a Genova, il padre nel 1796 porta il quattordicenne Niccolò a Parma dove si ammala di polmonite ma dove un ammiratore entusiasta delle qualità del giovane gli regala un violino costruito dal celebre Guarneri (1698-1744). A Parma Paganini si trasferisce nel 1797 e vi consolida la sua formazione di compositore con Alessandro Rolla (1757-1841), Ferdinando Paër (1771-1839) e soprattutto Gasparo Ghiretti (1747-1797). Nel 1801 Paganini per qualche tempo si dedica all’agricoltura, ma fra il 1810 e il 1813 e poi nel 1818 torna a suonare a Parma dove nel 1833 acquista una villa a Gaione, nella quale a intervalli soggiorna nel 1834, 1835 e 1836 e in quest’ultimo periodo la granduchessa Maria Luigia d’Asburgo gli affida l’incarico di riorganizzare e dirigere l’orchestra ducale di Parma per la quale redige un Regolamento che vuole cambiare le consuetudini parmensi. Ma l’opposizione interna lo costringono ad abbandonare l’incarico. È durante questo soggiorno parmigiano che abbiamo l’opportunità, ospiti nella sua villa di Gaione, d’intervistare Niccolò Paganini non tanto sulla sua musica, quanto sulle sue preferenze gastronomiche e se corrisponda al vero che anche lui usi in cucina la conserva di pomodoro.

Maestro, la ringrazio dell’ospitalità in questa magnifica villa e non voglio importunarla sulle sue apprezzatissime attività musicali. Gradirei invece avere alcuni suoi pareri gastronomici e in particolare sulla nuova moda del pomodoro e della sua conserva in cucina, partendo da Parma.

Pochi sanno che a ventun anni, in un non facile momento della mia maturazione giovanile, oltre a dedicarmi alla chitarra, mi sono interessato all’agricoltura o meglio all’orto con i suoi innumerevoli doni. Siamo all’inizio del secolo e il pomodoro incomincia a essere coltivato negli orti delle case di campagna del territorio parmigiano e le donne lo usano non solo fresco e con le altre erbe per farne insalate, ma anche per migliorare le caratteristiche dei sughi con i quali fare condimenti. Il pomodoro infatti dà loro un bel colore rosso che ricorda quello della carne, ma anche una consistenza particolare, utilissima per un uso sulla pasta, come qui a Parma suggerisce Vincenzo Agnoletti, credenziere di Maria Luigia. Per mantenere i pomodori tutto l’anno le donne parmigiane, dette rezdore, ora ricorrono all’essicazione del pomodoro al sole e anche producendo una salsa concentrata con la bollitura e poi al sole, ottenendo una pasta nera. Durante il periodo napoleonico abbiamo avuto notizia che il francese Nicolas Appert (1749-1841) riesce a conservare i vegetali e quindi i pomodori o la loro salsa in bottiglie di vetro ben chiuse e bollite come anche qui s’inizia a fare.

Anche lei usa la conserva di pomodoro? E come la considera nella cucina tradizionale?

In cucina come in musica la tradizione va sempre riformata con nuove invenzioni, dove l’innovazione tiene viva la tradizione e non ci vuole soltanto immaginazione e estro, ma anche intelligenza, capacità e soprattutto genio, che pochi hanno, ma che ho io in musica e anche in cucina. Per questo la salsa di pomodoro aggiunta al sugo di manzo per i ravioli alla genovese è un progresso, come ho scritto anche in una lettera al mio caro amico Luigi Guglielmo Germi (1786-1870) con il quale ci scambiamo idee sulla buona cucina, ricordandogli come “ogni giorno di magro e anche di grasso, sopporto una salivazione [acquolina in bocca – Nota dell’intervistatore] rammentando gli squisiti ravioli che tante volte ho gustati alla tua mensa”.

Maestro, ringraziandola dell’intervista, certamente Lei conosce quanto si dice sul suo prodigioso genio musicale, forse da lei stesso facilitato se non procurato, e cioè di un patto con il diavolo. Non vi è anche un patto con il diavolo nell’uso del pomodoro rosso e di lontane origini di popoli infedeli e non cristiani? Inoltre le si attribuisce il detto “Paganini non ripete” e questo vale anche per i ravioli con la salsa di pomodoro?

Nessun patto con il diavolo ma soltanto con il mio genio. Per quanto riguarda il detto al quale lei allude e che fa riferimento al febbraio del 1818 al Teatro Carignano di Torino, quando il re Carlo Felice di Savoia I (1765-1831) mi chiese di ripetere un brano la verità è che avevo lesioni ai polpastrelli e soprattutto avevo improvvisato e non potevo ripetere. Lo stesso può avvenire anche in cucina quando un piatto è improvvisazione.

 

Ricetta di Niccolò Paganini del sugo di manzo per i ravioli alla genovese. Manoscritto presso la Library of Congress di Washington (USA).

Per una libbra e mezza di farina due libbre di buon manzo magro per fare il suco. Nel tegame si mette del butirro, indi un poco di cipolla ben tritolata che soffrigga un poco. Si mette il manzo, e fare che prenda un po’ di colore. E per ottenere un suco consistente si prende poche prese di farina, ed adagio si semina in detto suco affinché prenda il colore. Poi si prende della conserva di pomodoro, si disfa nell’acqua, e di quest’acqua se ne versa entro alla farina che sta nel tegame e si mescola per scioglierla maggiormente, e per ultimo si pongono entro dei fonghi secchi ben tritolati e pestati; ed ecco fatto il suco.

Ora veniamo alla pasta per tirare le sfoglie senza ovi. Un poco di sale entro la pasta gioverà alla consistenza della medesima.

Ora veniamo al pieno. Nello stesso tegame colla carne si fa in quel suco cuocere mezza libbra di vitella magra, poi si leva, si tritola e si pesta molto. Si prende un cervello di vitello, si cuoce nell’acqua, poi si cava la pelle che copre il cervello, si tritola e si pesta bene separatamente, si prende quattro soldi di salsiccia luganega, si cava la pelle, si tritola e si pesta separatamente. Si prende un pugno di borage chiamata in Nizza boraj, si fanno bollire, si premono molto, e si pestano come sopra. Si prendono tre ovi che bastano per una libbra e mezza di farina. Si sbattano, ed uniti e nuovamente pestati insieme tutti gli oggetti soprannominati, in detti ovi ponendovi un poco di formaggio parmigiano. Ecco fatto il pieno. Potete servirvi del capone in luogo del vitello, dei laccetti in luogo di cervello, per ottenere un pieno più delicato. Se il pieno restasse duro, si mette nel suco.

Per i ravioli, la pasta si lascia un poco molla. Si lascia per un’ora sotto coperta da un piato per ottenere le foglie sottili.