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Originario dell’America del Sud, il pomodoro fu introdotto in Europa dagli Spagnoli nel XVI secolo, non come ortaggio commestibile, ma come curiosità ornamentale.Nel Settecento se ne sperimentò l’uso in cucina e in Sicilia si cominciò ad affettarlo, seccarlo e a farne “sugo ristretto” che asciugava al sole: la “conserva nera” in pani. Pioniere della coltivazione del pomodoro nel Parmense e della fabbricazione della conserva dura in pani fu, a partire dal 1867, Carlo Rognoni. Nel secondo decennio del Novecento, nel territorio di Parma si contavano già una settantina di industrie di trasformazione attive, ma il periodo decisivo per l’affermazione sul mercato internazionale fu tra gli anni Venti e gli anni Cinquanta del Novecento. Grazie all’assistenza della Stazione Sperimentale delle Conserve, sorta nel 1922 e diretta dalle origini da Francesco Emanuele (1896-1976), Parma raggiunse i vertici in tutti e tre i segmenti dell’industria del pomodoro: produzione agricola, trasformazione e impiantistica alimentare. Un primato che ancora oggi detiene.
Il frutto del pomodoro è costituito da tre parti: la buccia esterna detta epicarpo; la parte più consistente detta mesocarpo, carnosa e ricca di succo di sapore dolce-acidulo e l’endocarpo, la parte più interna.
La capacità di mutazione del pomodoro che permette di sviluppare e perpetuare con relativa facilità nuove e diverse varietà, ha contribuito al suo grande successo e alla sua ampia diffusioni. Qui nella teca sono riprodotte diverse varietà, dal primigenio Tomatillo al Cornuto delle Ande, progenitore dei perini.
Il pomodoro appartiene alla famiglia delle solanacee, genere lycopersicon, specie esculentum. Il pomodoro è una pianta annuale nei nostri climi, perenne nel clima di origine. Il frutto, particolarmente ricco di vitamine, contiene anche potassio, cloro, fosforo, magnesio, calcio, zolfo, sodio, ferro ed è la maggiore fonte di licopene, un composto formato da idrogeno e carbonio appartenente al gruppo dei carotenoidi, presente nel plasma umano e che ha una forte capacità antiossidante e di prevenzione dei tumori.
Le origini
Il pomodoro selvatico, o Solanum racemigerum, è originario del Sudamerica occidentale. Portato nell’America centrale, fu messo a coltivazione dai Maya, i quali svilupparono il frutto nella forma più grande che conosciamo oggi, a sua volta adottato dagli Aztechi, che lo coltivarono nelle regioni meridionali del Messico. Fu qui che Hernán Cortés lo vide durante l’occupazione della regione, fra il 1519 ed il 1521. Dal Messico i semi giunsero in Spagna al seguito di coloni e missionari, che prendendo a prestito il termine tomatl usato dagli indigeni, denominarono tomate il nuovo frutto. I dizionari fissano intorno al 1532 la prima attestazione in spagnolo della parola tomate. Ma in realtà i tomate giunti dall’America erano due.
IERI: nella seconda metà dell’800 il pomodoro passò dalla coltivazione negli orti al pieno campo per lo sfruttamento industriale. Le pianticelle, provenienti da semina diretta, erano coltivate in filari paralleli sorretti da paletti. Questo sistema detto alla genovese riamaste in uso fino all’avvento dei mezzi meccanici negli anni ’70 del ‘900.
OGGI: le varietà di pomodoro auto sostenute apparvero solo dopo la seconda Guerra Mondiale e furono importate dagli USA. Permisero la progettazione di sistemi automatici di raccolta.
VERSIONE ITALIANA: Una sintesi della storia e delle tecniche di coltivazione del pomodoro è narrata nel filmato.
VERSIONE INGLESE: Una sintesi della storia e delle tecniche di coltivazione del pomodoro è narrata nel filmato, disponibile anche in lingua inglese (chiedere alla biglietteria per il cambio lingua).
Il metodo più semplice per conservare i pomodori, documentato in Sicilia fin dal 1868, era appendere al sole l’intera pianta raccolta prima che maturasse. I pomodori avrebbero mantenuto la loro zuccherinità nei mesi successivi e si sarebbero potuti usare durante l’inverno. Nel tempo si codificò anche l’uso di fare bollire lungamente il pomodoro tritato e privato dei semi e delle bucce, fino ad ottenerne un sugo denso e scuro, che veniva poi fatto essiccare al sole: la cosiddetta “conserva nera”, confezionata in pani e avvolta poi in carta oleata per proteggerla nel tempo. Dalle prime varietà di pomodoro giunte nel Parmense dalle città marinare attraverso Piacenza – il Riccio Nizzardo e il Costoluto Genovese – sarebbero derivate il Riccio o Quarantino Parmigiano, impiegato principalmente per il consumo da tavola e il Ladino di Panocchia, prescelto da Carlo Rognoni per la produzione della conserva di pomodoro.
La prima azienda di trasformazione del pomodoro del Parmense fu costituita da un gruppo di agricoltori locali nel 1874 con il nome di Società anonima di coltivatori per la preparazione delle conserve di pomodoro. Negli anni Ottanta dell’Ottocento già esportava pani di conserva nera in Gran Bretagna e Argentina.
Nel frattempo le scoperte del francese Appert avevano consentito di mettere a punto i moderni sistemi di conservazione e di inscatolamento, inizialmente entro vasi di vetro, successivamente in lattine di banda stagnata. Ai primi del Novecento, con l’utilizzo delle boules e dei concentratori, costruiti per la prima volta in Francia, ma ben presto diffusi ovunque anche ad opera di industrie meccaniche locali, si giungerà alla più conveniente e sicura produzione sottovuoto, che consentiva di ottenere conserva di minore concentrazione (doppio e triplo), più facilmente inscatolabile e commerciabile.
Alla metà dell’Ottocento il mondo agricolo parmense era ancora piuttosto arretrato, ma già si notavano i segni di una rinascita che sarebbe diventata più imponente nei primi anni del nuovo secolo. La scuola, le istituzioni governative e l’associazionismo privato cominciavano a predisporre gli strumenti finanziari e tecnici per l’avvio della “rivoluzione agro-industriale” del Parmense.
Carlo Rognoni e il Comizio Agrario
Il “Comizio agrario” di Parma sorse il 17 luglio 1867 ed ebbe da subito quale presidente il prof. Carlo Rognoni (1829-1904), originario di Vigatto e laureato in chimica, che dal 1870 era anche il titolare della Cattedra di Agronomia dell’Istituto Tecnico. Il Comizio agrario, con il sostegno della Cassa di Risparmio, di cui Rognoni era un dirigente, promosse acquisti collettivi di concimi chimici e ne favorì la diffusione attraverso dimostrazioni pratiche. Si deve a Rognoni l’intuizione di portare la coltivazione del pomodoro dall’orto dietro casa al pieno campo, ed egli stesso studiò e sperimentò, nel suo podere la Mamiana di Panocchia, la qualità più adatta, chiamata Ladino di Panocchia, e l’introdusse nella rotazione agraria biennale in associazione al granturco o al frumento. I suoi sistemi di coltivazione si dimostrarono così efficaci da essere riconosciuti e utilizzati, se pur con piccoli adattamenti, a livello Europeo.
Cornelio Guerci, Antonio Bizzozero e la Cattedra ambulante di Agricoltura
L’iniziativa di istituire in Parma una “Cattedra ambulante di agricoltura” fu assunta dalla Cassa di Risparmio di Parma. A tradurre in pratica il progetto, nel settembre 1892, fu l’on. ing. Cornelio Guerci (1857-1949), consigliere dell’istituto e a sua volta agricoltore ed esperto viticoltore a Cascinapiano di Langhirano, che si avvalse dell’apporto tecnico del prof. Antonio Bizzozero (1857-1934), giovane agronomo trevigiano. Le conferenze nei comuni rurali indette dalla Cattedra ambulante erano precedute da avvisi alle autorità locali e dall’affissione di manifesti.
Le prime conserve di pomodoro venivano prodotte dalle donne di casa facendo bollire i pomodori raccolti nell’orto in normali pentole, rigirando il sugo con un mestolo di legno e colando poi il prodotto, ancora molto liquido e poco concentrato, in setacci e, successivamente, con l’aiuto di piccoli apparecchi di varia foggia, esposti qui a lato, in modo da separare i semi e le bucce. La conserva casalinga veniva poi messa in vasi di vetro, tappati con un sughero dopo aver versato un poco d’olio sulla superficie. Doveva essere consumata entro breve tempo, a meno che non venisse praticata anche la bollitura a “bagnomaria”, secondo il metodo messo a punto dal francese Appert, che consentiva una conservazione più lunga. Con Ludovico Pagani (1866-1939) e Brandino Vignali (1868-1944), pure di Panocchia, Rognoni cominciò a fabbricare conserva dura in pani. Per fare la conserva bastavano allora una pentola di rame, un focolare – o fogón (che si può qui vedere esposto) – e delle tavole di legno. Le prime fabbriche di conserva si erano sviluppate intorno a casa sua, poi si diffusero a macchia d’olio in tutto il Parmense e nel Piacentino.
Il plastico rappresenta la linea di trasformazione del pomodoro in conserva fino agli anni Cinquanta del Novecento.La prima fase di lavorazione è quella del lavaggio e della cernita manuale per la eliminazione del prodotto guasto o immaturo su di un nastro trasportatore. Segue lo spappolatore, costituito da due rulli a forma di stella che s’incrociano schiacciando il pomodoro. Attraverso un’apertura sottostante, il prodotto cade nel separa-semi, che ha la funzione di estrarre i semi dal pomodoro senza romperli per evitare di disperdere la componente oleosa all’interno della polpa. La macchina è formata da una coclea che agisce entro un cilindro in acciaio in parte traforato: la parte liquida ed i semi attraversano i fori e cadono nella sottostante asciuga-semi che separa il succo. Questo succo si riunisce poi alla polpa, sminuzzata in piccole parti dal trituratore. La brovatrice o scottatrice consente di riscaldare il triturato ad una temperatura di 80-85° attraverso il passaggio del prodotto in fasci di tubi riscaldati dal vapore, allo scopo di agevolare il distacco della buccia. La passatrice, la raffinatrice e la super raffinatrice, con filtri sempre più fini, trattengono tutte le parti più grossolane e le bucce. La polpa fluida ed omogenea così ricavata, arriva nella boule dove avviene la concentrazione sotto vuoto del pomodoro. La boule consente di trasformare fino a 1800 litri di polpa di pomodoro proveniente dalla raffinatrice in concentrato (doppio o triplo) secondo il principio che un liquido sotto vuoto bolle a temperatura minore rispetto ai 100° e con una migliore resa qualitativa. Il concentrato, in uscita dalle bolle a 60-65°, viene trasferito attraverso le pompe alla linea di riempimento, e quindi riscaldato alla temperatura di 82-86° dalla termo riempitrice, dotata di un serbatoio con agitatore in movimento e di un meccanismo di dosatura a pistone che consente di trasferire il prodotto nella giusta quantità e peso entro le lattine, che vengono successivamente convogliate alla macchina aggraffatrice tramite nastro per la chiusura. L’aggraffatrice, sia manuale che meccanica, applica il coperchio metallico alla lattina piena di prodotto e procede alla sigillatura attraverso cilindri (o rollini) rotanti che ripiegano, unendoli, i lembi di metallo della lattina e del coperchio. La temperatura della conserva consente, col raffreddamento, di creare un leggero sottovuoto, essenziale per la conservazione del prodotto. Al termine del processo le latte vengono sterilizzate in autoclave o in sterilizzatrici ad acqua bollente. Un successivo passaggio in acqua fredda consente il raffreddamento del prodotto. Al centro del salone sono esposte in sequenza le macchine della linea di produzione della conserva. La maggior parte dei macchinari proviene dalla fabbrica del parmigiano Zaccaria Rossi di Pieve a Settimo (Firenze) e sono state prodotte da industrie meccaniche parmensi. Sono esposte: un Trituratore Vettori & Manghi del 1950; una Brovatrice Ghizzoni del 1955; una Passatrice Luciani del 1945; una Boule della milanese Cecchin & Quaquarini del 1920 (da Emiliana Conserve, Busseto); un Premibucce Negro del 1950; una Pompa verticale a pistone del 1960, una Riempitrice Migliavacca del 1946; una Termo dosatrice Migliavacca del 1950; una Pompa manuale del 1930 (da Pezziol, Parma); un’Aggraffatrice Kircheis Aue del 1935 (da Fratelli Mutti, Basilicanova); una Aggraffatrice Roche del 1930; una Aggraffatrice Comet del 1970 e una Aggraffatrice Perogalli del 1970.
Le profonde modificazioni introdotte nell’agricoltura negli ultimi decenni dell’800 hanno comportato un considerevole mutamento del paesaggio agrario, specie nelle zone pianeggianti e pre-collinari. Anche il complesso edilizio che presiedeva alle coltivazioni e che ospitava le famiglie degli agricoltori, le stalle degli animali, le concimaie, i magazzini per i foraggi, e le nuove macchine agricole, si arricchiva in molti casi del fumaiolo della fabbrica, assai più elevato e imponente rispetto a quello del caseificio, dando una nuova connotazione al paesaggio, come si nota, ad esempio, nei dipinti di Daniele de Strobel (1925) per la Camera di Commercio (ora presso Cariparma-Crédit Agricole). Le ciminiere delle fabbriche di conserve, che svettavano sulla campagna, divenivano così, al pari dei campanili, nuovi punti di riferimento sull’orizzonte della nuova realtà agricola.
Secondo i dati ministeriali, nel 1890 erano attivi in provincia di Parma 16 opifici, che disponevano complessivamente di 35 caldaie a fuoco diretto e occupavano 76 operai (59 uomini e 17 donne) producendo mediamente 535 quintali di conserva nera in pani all’anno. Nel 1912, al termine di trent’anni di sviluppo, l’industria conserviera parmigiana offriva, attraverso i dati della Camera di Commercio, l’immagine di un gigante economico: 61 stabilimenti, appartenenti a 56 imprenditori individuali o società, trasformavano, mediante 229 impianti sottovuoto, 1,5 milioni di quintali di pomodoro, pagati agli agricoltori 7 Lire al quintale – il prezzo più elevato che si registrasse nel Paese – distribuendo nelle campagne 12 milioni di Lire. Nel 1990 le aziende trasformatrici erano 14 con 5,5 milioni di prodotto lavorato per giungere nel 2009 a 9 stabilimenti con oltre 10 milioni di quintali lavorati.
Il grafico rappresentato nel pannello rende bene il trend di questo sviluppo di produzione e di progressiva concentrazione del numero di aziende.
Nel pannello multimediale si trovano le schede di tutte le industrie conserviere documentate, sia esistite che attive. Sfiorando con la mano la località di interesse, verranno visualizzate le aziende attive in ogni zona.
Nei campi i pomodori venivano raccolti a mano generalmente dalle donne, che passavano lungo le scie, sceglievano quelli più maturi, li riponevano in un cestino di vimini o nella caratteristica minéla di legno, che tenevano al braccio e, giunte sulla carraia, alla fine della scia, li versavano con delicatezza entro cassette di legno che venivano caricate dagli uomini su carri trainati dai buoi e condotti alla fabbrica. Le cassette usate fino agli anni Trenta del Novecento e, ad esaurimento, fino agli anni Cinquanta, erano quelle con le assicelle ormai annerite poiché riutilizzate per raccogliere i grappoli di lambrusco durante la vendemmia. Erano piuttosto grandi e potevano contenere fino a 40 chili di pomodori, per cui col tempo vennero utilizzate cassette sempre in legno, ma più piccole, dal contenuto di circa 25 chili. Per la conservazione del prodotto finito, si utilizzavano invece fusti in legno a doghe con cerchi in ferro simili a piccole botti, che potevano contenere un quintale circa di conserva. I fusti potevano essere venduti direttamente a grandi consumatori (mense militari o di collegi, ad esempio) o ad altre industrie conserviere, oppure tenuti in serbo dalla fabbrica stessa per una successiva lavorazione nei mesi invernali, secondo le richieste del mercato. Vedete esposti qui cesti, cassette e fusti.
Storia della lattina
Con il termine di “latta” si intende la lamiera di ferro sulla cui superficie viene depositato un sottile strato di stagno. Se la sua applicazione avviene mediante elettrolisi, prende il nome di banda stagnata. Il procedimento consente di ottenere contenitori con la robustezza del ferro e la resistenza alla corrosione dello stagno. Lo sviluppo tecnologico, che ha portato in tempi recenti alla produzione a basso costo di lamiere in alluminio o in acciaio inox ha ridimensionato l’uso della latta nelle conserve alimentari, sia per il maggior costo dello stagno, che per la sua minore compatibilità con alcuni usi alimentari, mentre per le altre applicazioni si è fatto ricorso alle materie plastiche. La banda stagnata cominciò ad essere lavorata tra la fine del 1200 e primi anni del Trecento a Wunsiedel, una cittadina dell’Alta Franconia, in Germania. La sua affermazione negli imballaggi si avrà solo tra la fine del Settecento e i primi anni dell’Ottocento. È l’inglese Peter Durand, a depositare un brevetto (UK Patent 3.372) il 25 agosto 1810. Gli inglesi Bryan Donkin e il socio John Hall, acquisito nel 1812 il brevetto da Durand – applicando le metodologie di Nicolas Appert – iniziarono la produzione di cibi confezionati in scatole di latta presentati con successo nel 1813 al Duca di Wellington. Utilizzate dall’Esercito, dalla Marina e dai primi esploratori, le scatolette, o “lattine” come ancor oggi sono chiamate, saranno commercializzate nei negozi a partire dal 1830. In Italia Francesco Cirio (1836-1900) e Pietro Sada (1855 ca.-1942) furono i primi a confezionare vegetali (1856) e carne (1881) in latte di banda stagnata, importandole però dall’estero. Il primo fabbricante italiano di scatole in banda stagnata sarà Luigi Origóni, che il 4 febbraio 1890 iniziava l’attività alla Bovisa di Milano.
Agli inizi del Novecento, quando le prime scatole di estratto di pomodoro arrivavano sugli scaffali delle drogherie, i sistemi di comunicazione e di promozione del prodotto erano assai limitati.L’analfabetismo, soprattutto fra le donne di casa, era ancora assai diffuso ed era quindi necessario affidare la riconoscibilità del proprio marchio, più che ad un nome, ad un simbolo grafico o ad un disegno. Inoltre le scatole, tutte della stessa forma e dimensione (principalmente 200 grammi, mezzo chilo ed un chilo) avevano nella stragrande maggioranza gli stessi colori, con predominanza del rosso, del verde e dell’oro.L’idea, semplice ma efficace, fu quella di collegare l’estratto di pomodoro ad una immagine facilmente memorizzabile, quale poteva essere un animale, un personaggio famoso, un avvenimento storico od un oggetto molto comune. Nel pannello si possono osservare gli elementi grafici più utilizzati dalle industrie conserviere parmensi, raggruppati per tipologie.
L’inglese Peter Durand, è l’inventore, nel 1810, delle scatole in metallo stagnato adatte alla conservazione degli alimenti. Impegnato ad individuare un metodo per sigillare il contenuto, non si preoccupò però dei sistemi per aprire le scatole. Solo nel 1855 veniva messo a punto dall’inglese Robert Yates uno specifico attrezzo per facilitare l’apertura delle scatole di banda stagnata: l’apriscatole, destinato ad assumere una molteplicità sorprendente di forme e dimensioni fino ai nostri giorni. L’apriscatole, che è nei fatti una leva, pur nella sua variegata molteplicità di forme, applica dei meccanismi riconducibili essenzialmente a tre principi fondamentali: quello del taglio a pressione con lama fissa (generalmente ad un solo manico), quello del taglio rotante verticale (sul coperchio), perlopiù a due manici, quello del taglio rotante orizzontale (sul bordo esterno della lattina, sotto il coperchio), perlopiù a due manici.Nella vetrina è esposta una selezione di attrezzi, databili fra il 1860 ed il 1960 appartenenti per la maggior parte alla raccolta di Carlo Grandi, il più importante collezionista italiano di apriscatole, provenienti dall’Europa e dall’America e utilizzati sia in ambito domestico che professionale. Ai vari modelli sono affiancati, dove disponibili, i disegni dei brevetti, le istruzioni o le confezioni.L’indicazione d’anno è relativa al deposito del modello ed è da considerare in termini relativi: vari modelli hanno avuto infatti periodi di produzione anche assai estesi.
Si incontra a questo punto del percorso museale una Fiat Topolino del 1954 con tubetto pubblicitario del triplo Concentrato di Pomodoro. Dopo la Seconda Guerra Mondiale l’Italia era un paese da ricostruire ed era fondamentale, prima della diffusione di massa del frigorifero, conservare a lungo le poche risorse alimentari disponibili. La conserva di pomodoro, una volta aperta la lattina, rischiava, seppur protetta da un leggero velo d’olio d’oliva, di divenire preda di muffe e batteri. Nacque così l’intuizione di utilizzare i tubetti come contenitori per la conserva.Dopo un avvio sperimentale, nell’aprile del 1951 la Fratelli Mutti lanciava sul mercato italiano il Triplo Concentrato di Pomodoro nell’innovativo contenitore. La felice idea di impiegare, quale chiusura del tubetto, un ditale in materiale plastico, riutilizzabile dalle massaie per i lavori di cucito, contribuirà a rafforzare la riconoscibilità e la diffusione del prodotto. In poco tempo il concentrato Mutti sarà conosciuto come “il tubetto del ditale”.
Sulla parete di fondo, alle spalle della Topolino, si trova la riproduzione della targa bronzea di Pietro Carnerini (1887-1952), realizzata per l’azienda meccanica Manzini nel 1948. La targa bronzea, un tempo collocata all’ingresso dell’industria meccanica Manzini preceduta dal busto del fondatore, Tito (1877-1929) e oggi posta sul retro del Municipio di Traversetolo, paese natale del Carnerini, è dominata dalle possenti figure allegoriche dell’Agricoltura (al centro), del Commercio (a sinistra) e dell’Industria. Il rilievo di sinistra raffigura l’interno dello stabilimento Manzini durante la produzione di macchinari per l’industria alimentare. Il rilievo di destra mostra l’interno di una fabbrica di conserva in piena attività con le boules e i macchinari in funzione. La composizione, dagli evidenti richiami Liberty, celebra, in toni misurati, l’operosità dell’uomo e la civiltà contadina caratteristica della terra parmense.
L’industria conserviera del pomodoro, per la specifica natura e tipologia della materia prima, fu storicamente la prima industria alimentare a dotarsi di un laboratorio di analisi chimiche per il controllo di qualità durante tutte le fasi della lavorazione. Grazie al contributo della Stazione Sperimentale delle Conserve Alimentari, negli anni Trenta vennero messi a punto efficaci metodi di controllo, tesi a garantire il livello qualitativo del prodotto e a promuovere, grazie a questo, il prodotto parmense sul mercato nazionale e internazionale. Il laboratorio di controllo di una fabbrica di conserve di pomodoro di medie dimensioni nell’immediato dopoguerra era arredato con un tavolo da laboratorio centrale rivestito in piastrelle con prese d’acqua e di gas, un banco di lavoro a muro con cappa di aspirazione, un armadio a vetri, uno scaffale per sostanze chimiche, piano in marmo, lavandino, scrivania e molte apparecchiature che qui si possono osservare. Le analisi di routine contemplavano l’individuazione del colore, del residuo, degli zuccheri e dell’acidità, questi ultimi determinati per legge, nei valori minimi e massimi consentiti.
Lo sviluppo dell’industria conserviera coincide con l’epoca d’oro del cartellonismo italiano, contrassegnata da editori lungimiranti quali Ricordi a Milano, o Chappuis a Bologna, per i quali lavorarono artisti famosi, da Boccasile a Cappiello, da Dudovich a Mauzan a Carboni.Tuttavia il mercato della conserva non disponeva di capitali tali da finanziare vere e proprie campagna pubblicitarie. Il messaggio si affidava a poche locandine o cartelli vetrina in latta litografata da collocare all’interno dei negozi, alle cartoline pubblicitarie e, per le aziende più importanti, ai ricettari. Il personaggio principe della comunicazione dell’industria conserviera è il cuoco, seguita dalle figure femminili e da quelle di ghiotti o buongustai. In alcuni, rari casi compare la famiglia riunita a tavola. Patriottismo e sentimentalismo, folklore e ornamentazione, realismo e iperrealismo, astrattismo e design si sono via via succeduti sulle superfici di manifesti, cartoline e pagine pubblicitarie. Tutto questo è ben rappresentato dalle campagne esposte qui o delle cartoline visibili nel monitor sfogliabile, che partono dal 1910 circa e arrivano al 1984 alla celebre ‘O così o Pomì’ di Emanuele Pirella.
Nel 1890, all’epoca in cui iniziava a muovere i primi passi l’industria conserviera, in provincia di Parma, secondo l’indagine del Ministero di Agricoltura, Industria e Commercio, erano attive 17 fonderie e officine meccaniche, delle quali 12 in città, che occupavano complessivamente 147 dipendenti. Saranno questi piccoli laboratori artigianali a sviluppare, in base alle richieste e alle esperienze delle fabbriche di conserva, macchinari e impianti all’inizio estremamente semplici e via via sempre più complessi per l’intero comparto agroalimentare. Così l’industria delle conserve di pomodoro ha favorito lo sviluppo di tecnologie per la lavorazione dei prodotti degli altri comparti alimentari tanto che a distanza di oltre un secolo, oggi a Parma si producono macchine per la lavorazione di tutte le conserve vegetali, ma anche della frutta, della carne, del pesce, del latte, non di rado applicando in maniera innovativa ad altri prodotti tecnologie messe a punto per il pomodoro.
VERSIONE ITALIANA: Nella sezione sono raccontate le vicende delle più antiche ed illustri imprese meccaniche parmigiane, mentre il video ricostruisce l’evoluzione del comparto meccanico e delle tecnologie relative.
VERSIONE INGLESE: Nella sezione sono raccontate le vicende delle più antiche ed illustri imprese meccaniche parmigiane, mentre l’evoluzione del comparto meccanico e delle tecnologie relative è tratteggiato dal filmato, disponibile anche in lingua inglese (chiedere alla biglietteria per il cambio lingua).
L’industria parmense di trasformazione del pomodoro ha potuto contare su una diffusa schiera di imprenditori che hanno contribuito, con il proprio lavoro, intelligenza e tenacia, alla crescita del comparto. Nell’impossibilità di citarli tutti, ricordiamo qui i “pionieri”, coloro, cioè, che diedero l’avvio, in varie zone della provincia, all’avventura dell’oro rosso di Parma nel XIX secolo, a partire da Carlo Rognoni di cui si è accennato anche in precedenza. Nel pannello sono presentate le loro biografie.
VERSIONE ITALIANA: Il video descrive, attraverso le parole di Renato Azzali, responsabile di stabilimento in varie aziende parmensi, e rari filmati d’epoca, i vari mestieri che venivano svolti in una fabbrica di conserve: il capofabbrica, il fuochista o caldaista, il pesatore, le sceglitrici, il boullista, il chimico, il magazziniere, lo spedizioniere, ponendo l’accento sul ruolo delle donne nel funzionamento delle lavorazioni.
VERSIONE INGLESE: Il video disponibile anche in lingua inglese (chiedere alla biglietteria per il cambio lingua), descrive, attraverso le parole di Renato Azzali, responsabile di stabilimento in varie aziende parmensi, e rari filmati d’epoca, i vari mestieri che venivano svolti in una fabbrica di conserve: il capofabbrica, il fuochista o caldaista, il pesatore, le sceglitrici, il boullista, il chimico, il magazziniere, lo spedizioniere, ponendo l’accento sul ruolo delle donne nel funzionamento delle lavorazioni.
La Stazione Sperimentale, nacque in viale Fratti a seguito del Regio Decreto 2 luglio 1922, n. 1396, – a sancire un primato che la città aveva conquistato a partire dal decennio precedente – per iniziativa di Comune, Provincia, Camera di Commercio, Consorzio Industriali, Cassa di Risparmio, Banca dell’Associazione Agraria e grazie all’impegno dell’Ingegner Romano Righi Riva (1873-1956), Presidente della Camera di Commercio, di Antonio Bizzozero, tecnico agrario direttore della Cattedra Ambulante di Agricoltura e del politico parmigiano Giuseppe Micheli (1874-1948), e aveva il compito di innovare e accrescere ulteriormente il comparto e di “promuovere con indagini, studi, ricerche, analisi, il progresso tecnico dell’industria conserviera e di curare il perfezionamento del personale tecnico addetto alla stessa industria”.
Sarà il suo primo Direttore, Francesco Emanuele (1896-1976), nativo di Alcamo, in Sicilia e laureato al Politecnico di Torino, che, dopo un viaggio di studio negli Stati Uniti, contribuirà ad una seria e profonda trasformazione del comparto grazie al miglioramento genetico delle specie di pomodoro utilizzate (promuovendo la creazione di campi sperimentali per la selezione della semente), all’innovazione delle tecnologie di produzione con il superamento del problema dello smaltimento di bucce e semi, all’innalzamento complessivo del livello di igiene nell’intero processo di lavorazione e all’intensa attività di divulgazione scientifica attraverso la rivista della Stazione Sperimentale, “Industria delle Conserve” fondata nel 1925 e apprezzata a livello internazionale e l’organizzazione di convegni specializzati.
Ancor oggi la Stazione Sperimentale, che dal 31 maggio 2010 è Azienda Speciale della Camera di Commercio di Parma, ha compiti di ricerca e di studio di innovazioni tecnico-scientifiche da diffondere e mettere a disposizione delle industrie sia in campo agro-alimentare che meccanico.
Nel corso degli anni Trenta l’industria conserviera italiana aveva attraversato una notevole fase di espansione. Era tuttavia necessario radicare, in Italia e all’estero, una maggior fiducia nelle conserve e insieme mettere in grado i produttori di aggiornarsi al miglior livello scientifico e tecnico. Maturò così l’idea di un Ente che svolgesse queste funzioni, soprattutto attraverso il formidabile strumento di una mostra annuale, luogo privilegiato per l’incontro e lo scambio delle esperienze più avanzate, sia sul versante tecnologico che su quello alimentare.
Sarebbe stata la Stazione Sperimentale, attraverso il lavoro del suo direttore, Francesco Emanuele, a promuovere l’idea presso le amministrazioni pubbliche, a guadagnare il consenso del Comune di Parma, dell’Amministrazione Provinciale, del Consiglio delle Corporazioni (la gloriosa Camera di Commercio) e degli Industriali Conservieri, a far redigere all’architetto Gino Robuschi (1893-1969) nel 1935 un primo progetto. Lo sforzo progettuale, certamente razionale e funzionale si sarebbe però scontrato con le scarse risorse economiche. Accantonati così i primi studi, la Stazione si impegnò a cercare sostegni a livello nazionale. Finalmente il 15 maggio 1939 usciva il decreto di costituzione con relativo statuto. Fin dal ’39 il Comune aveva intrapreso, nella zona Nord del Parco Ducale, la costruzione del caratteristico edificio a linee neoclassiche progettato dall’ingegner Ugo Pescatori (1893-1972), poi denominato Padiglione A, ma la consegna all’Ente ritardò fino al gennaio 1941.
La manifestazione, che prese il nome di Prima Mostra delle Conserve Alimentari, si tenne, dopo vari rinvii, dal 1° al 20 settembre 1942, dando così inizio alla tradizione settembrina. In un panorama fieristico dominato dalle grandi campionarie e da una miriade di mostre mercato più o meno generiche, quella di Parma si proponeva quindi come un nuovo tipo di manifestazione, basata sulla specializzazione, che nel dopoguerra avrebbe fatto scuola. Passati i giorni terribili della guerra, alla metà degli anni Cinquanta la Mostra poteva a buon diritto definirsi “uno spettacolare panorama internazionale di nuovi sviluppi e perfezionamenti tecnici”, che avrebbe costituito le basi per il decollo delle Fiere di Parma e per la nascita, nel 1985, del moderno Cibus, ospitato nel nuovo quartiere fieristico lungo l’Autostrada del Sole.
Il pomodoro è entrato a tal punto nella cultura italiana ed europea, da non accontentarsi più di essere un vegetale, ma da vestire i panni di numerosi oggetti della vita quotidiana,dagli accessori per la cucina, all’abbigliamento, all’editoria, alla musica e da entrare, come protagonista, nel mondo della pubblicità per promuovere beni… che non sono pomodori. Qui sono esposti numerosi esempi. Le pagine pubblicitarie sono visibili nel piccolo schermo a rotazione.
Escludendo le raffigurazioni dei testi di botanica, la prima rappresentazione artistica conosciuta in Italia del pomodoro è rintracciabile negli affreschi di Francesco Salviati De’ Rossi (1510-1563) nel salone delle udienze di Palazzo Vecchio a Firenze, databili al 1543-1545. Da quella data il pomodoro entra nel mondo dell’arte, dapprima discretamente con le nature morte del XVIII secolo, poi, dal Novecento, con la complicità del gusto Liberty, in forma sempre più evidente. La sezione documenta un viaggio artistico lungo cinque secoli.
L’arrivo del pomodoro dal Nuovo Mondo non fu una “scoperta” per la cucina. Se i nuovi prodotti assomigliavano a qualcosa che si mangiava già, avevano maggiori probabilità di essere integrati rapidamente sulle mense europee. Fu il caso del mais, dei fagioli americani o del peperoncino che si potevano assimilare facilmente ad altri alimenti già noti. L’accettazione del pomodoro, invece, fu lenta e problematica. I sospetti iniziali – è bene ricordare che ancor oggi l’intera pianta del pomodoro, ad eccezione del frutto, è tossica se consumata cruda – presero saldamente piede, limitandone l’impatto, peraltro penalizzato anche dalle caratteristiche climatiche necessarie alla sua coltura. Soltanto alla fine del Seicento troviamo traccia del pomodoro in un ricettario italiano di cucina. La citazione più antica è quella dello Scalco alla moderna, trattato di Antonio Latini (1642-1696), cavaliere marchigiano, edito a Napoli nel 1694. Tutti i piatti in cui appare il pomodoro – condimenti per bolliti, stufato di verdure o con carne – vengono definiti “alla Spagnola”.
In quasi tutto il Sud dell’Italia il pomodoro entra nel XIX secolo a far parte del “cibo ordinario” dei contadini mentre la conserva o il passato iniziano a prendere lentamente piede in cucina. È del 1840 la famosa ricetta di Niccolò Paganini (1782-1840) dei ravioli alla genovese con salsa di pomodoro. E dai registri dell’amministrazione di Maria Luigia, duchessa di Parma, sappiamo che nel 1844, tre anni prima della sua morte, si fecero ottanta “vasi di conserva” per un peso complessivo di 309 chili. La salsa di pomodoro entrerà piuttosto lentamente nei ricettari e si dovrà attendere la produzione industriale per una sua diffusione più ampia. L’incontro fra “Maccheroni e Pommarola” è fortunato ma non ancora decisivo: parallelamente alla pasta, il pomodoro conquista anche la pizza.
Nel 1885 si afferma nel napoletano la coltivazione di un pomodoro piccolo, ovoidale e appiattito ai lati, di un colore rosso scarlatto, che cresce in grappoli e dà una resa straordinaria, denominato “Re Umberto”. Se al Re era stato intitolato un pomodoro, alla Regina verrà dedicata una pizza. Nel 1889, in visita a Napoli, la Regina si vide offrire, dal noto pizzaiolo Raffaele Esposito, una pizza adornata con pomodoro “Re Umberto”: era nata la “Pizza Margherita” e, con questa, il connubio, ormai indissolubile, fra pomodoro e pizza napoletana. Risalendo verso il Nord della penisola, i pomodori e la conserva di pomodoro presero il posto del lardo come condimento di alimenti base quali la minestra, il riso, la polenta. In Toscana i mezzadri lo utilizzavano frugalmente nelle minestre o, con il pane raffermo, nella pappa col pomodoro. Nel 1931 la Guida gastronomica d’Italia del Touring afferma che il pomodoro “ha conquistato diritto di cittadinanza in quasi tutte le regioni d’Italia”. La conquista si estende ovunque, a segnare di rosso quella che nel 1950 verrà definita “Dieta Mediterranea”.