La cucina è “fatta” certamente di sapori e aromi, ma, a ben guardare, la sua storia è scandita di colori: quelli degli elementi base, via via “scoperti” nel corso dei secoli. Se carni e pesce hanno regolarmente rifornito la mensa degli uomini da migliaia di anni, non così si può dire per una serie davvero sorprendente di ingredienti e di condimenti, quali, ad esempio, le salse.
Fino a tutto il Rinascimento, le salse, a base di pane, aceto, vino e abbondanti spezie, avevano una uniforme colorazione bruna. Ma nel corso del Seicento, nella grande cucina di Versailles, grazie alla béchamel e alle sue applicazioni, i piatti del Re Sole si tingono di bianco, come bianco sarà il condimento degli spaghetti a Napoli, insaporiti con il Parmigiano grattugiato (“come il cacio sui maccheroni”, si dice) e resi più appetitosi da una spruzzata di pepe nero, quasi ad imitare il cono del Vesuvio.
Sarà il pomodoro a cambiare – e per sempre – colori, sapori e profumi della cucina di molti Paesi. Un cambiamento, tuttavia, lento e discreto, che deve il suo esordio all’arrivo della rossa bacca in Europa sulle navi dei conquistatori spagnoli al seguito di Hernán Cortès (1485-1547) di ritorno dalle Americhe.
La pianta del pomodoro era, infatti, originaria del Perù, ove pare si sia diffusa come infestante fra le piante di mais. Già tremila anni prima dell’arrivo degli esploratori spagnoli nel Nuovo Mondo, il pomodoro era un alimento diffuso tra gli Aztechi, e gli abitatori dell’America centrale avevano imparato a coltivarlo, migliorandone progressivamente la resa, tanto che nel Cinquecento i pomodori costituivano, con il mais e la manioca, una parte predominante della dieta degli abitatori dell’area compresa tra il Messico ed il Perù.
Le prime notizie sul pomodoro, insieme ad alcune ricette di salse facilmente acquistabili già pronte nel variopinto mercato di Tenochtitlàn, la capitale del regno di Montezuma, sono contenute nell’Historia general de las cosas de la Nueva España del francescano Padre Bernardino de Sahagun (giunto nella “Nuova Spagna” nel 1526 con dodici confratelli con il compito di convertire gli indigeni alla vera fede) che con gusto etnico ed autentico interesse, era andato raccogliendo le ultime, preziose, testimonianze di una civiltà antica e affascinante, rapidamente snaturata e spezzata dalle armi e dai pregiudizi dell’Occidente. Le donne Nahua – ricorda Bernardino – preparavano le loro salse “in questa seguente maniera: aij (peperoncino), pepitas (semi di zucca), tomatl (pomodoro), chiles verdes (peperoncini verdi piccanti) e altre cose che rendono i sughi molto saporiti”. Nell’uso quotidiano, il pomodoro veniva utilizzato acerbo e servito a fettine sottilissime, oppure, maturo, cotto in casseruola per arricchire i piatti a base di pesce o di pollame. Ma l’opera di Padre Bernardino sarebbe stata pubblicata solo nel 1829 (e per di più in Messico) mentre l’Europa continuava ad ignorare il potenziale gastronomico del pomodoro.
I primi esemplari giunti nel Vecchio Continente sulle caravelle spagnole erano di piccole dimensioni e di colore giallo, che rimase tale fino a tutto il Settecento, tanto che il botanico-gastronomo Vincenzo Corrado (1734-1836), nel suo Cuoco galante pubblicato per la prima volta a Napoli nel 1773, li descriveva come “frutti” color zafferano.
Il nome di “Pomo d’oro” appariva quasi eccessivo, né convinceva la qualifica di “pomo d’amore” per le presunte qualità afrodisiache, preferita da Francesi (Pomme d’amour), Britannici (Love apple), Germani (Liebesapfel) e perfino Siculi (Pumu d’amuri). Sopravviveva il nome originario di “Tomatl” acquisito dalla lingua azteca e molte lingue e linguaggi europei lo adottarono, ammorbidendolo in “Tomato” e simili, fino ai nostri liguri-piemontesi “Tomatiche” e al parmigiano “Tomachi”.
Nel Seicento Olivier De Serres (1539-1619), botanico alla Corte di Francia, cita il pomodoro nel suo Trattato di agricoltura, come una curiosità, gradevole come pianta ornamentale.
Qualcuno cercherà di mangiarne le foglie, ma con riscontri negativi e la gente si convincerà che quei frutti gialli siano velenosi o causa di malattie (un po’ com’era accaduto per la peraltro benemerita patata). Da qui un rifiuto che durerà a lungo, tanto che negli Stati Uniti – dove era stato introdotto nel 1781 a Philadelphia da un rifugiato francese proveniente da Santo Domingo e sostenuto da Thomas Jefferson – si dovrà attendere il 1829 per vederlo immesso sul mercato alimentare, dopo che nel1802 a Salem, nel Massachussets un pittore di origini italiane aveva faticosamente dimostrato, mangiando in pubblico un pomodoro, che si trattava di un alimento commestibile.
Sul suolo italico la conquista delle cucine da parte del pomodoro era comunque stata lenta e priva di prove eclatanti. La citazione più antica è quella dello Scalco alla moderna trattato di Antonio Latini (1642-1696), cavaliere marchigiano, edito a Napoli nel 1694. Latini riporta una sola ricetta, consigliando di cuocere i pomodori con “malignane e cocuzze”, melanzane e zucchine, in un appetitoso e colorato stufato di verdure.
Ricetta pressoché identica si trova, nel 1705, nel Panonto toscano, redatto da Francesco Gaudenzio (1648-1733), cuoco dei Gesuiti, che propone il misto di verdure in tegame, reso inconfondibile dal rosso dei pomodori, pelati, spezzettati e soffritti nell’olio. Ancora soffritti in olio, i pomodori nominati da un testo carnevalesco napoletano del 1743 e, trent’anni più tardi, nel già citato Cuoco galante di Vincenzo Corrado, trattato di cucina in buona parte vegetariana, che presenta dodici ricette a base di pomodoro: sempre stufati, ma poi ripieni, fritti e passati in salsa, da servire con carni e pesci. Nessun riferimento, però, alla pasta asciutta, descritta solo nel 1839 da Ippolito Cavalcanti, duca di Bonvicino, (1787-1859) nella sua Cucina teorico pratica, che codifica, per la prima volta, e in dialetto napoletano, “i vermicielli co’ le pommodore”, precisando che la salsa deve essere preparata con moltissimi frutti, eliminando “chelli semi e chella acquiccia”.
L’incontro fra “Maccheroni e Pommarola” è fortunato ma non decisivo: parallelamente alla pasta, il pomodoro conquista anche la pizza. Nel 1835 Alexandre Dumas (1802-1870) descriveva vari tipi di pizza, quasi tutti ancora “in bianco”: con olio e aglio, con pesciolini e, variante minore, col pomodoro. Una ventina d’anni più tardi il napoletano Emanuele Rocco conferma questa ricetta, aggiungendo la mozzarella, abbinando prosciutto e pomodoro.
Alla Corte di Parma, il cuoco di Maria Luigia, Vincenzo Agnoletti (1776-1826 post), scrive: “I pomodori si preparano in diverse maniere. Sono di diverso gusto, purché siano rossi e freschissimi”. È del 1840 la famosa ricetta di Niccolò Paganini (1782-1840) dei ravioli alla genovese con salsa di pomodoro.
Nel 1853 il pomodoro si accredita anche sulle mense ufficiali francesi, allorché compare in svariati allestimenti e condimenti, in un pranzo di gala offerto dall’imperatrice Eugenia, moglie di Napoleone III.
La conquista si estende ovunque, a segnare di rosso quella che nel 1950 verrà definita “Dieta Mediterranea”: la Spagna propone, con il Gazpacho, una zuppa fredda con pomodoro e la Provenza fa delle Tomates un simbolo gastronomico.