Pagine di gusto

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XIV – XVIII secolo

[I pomodori] mangiasi nel medesimo modo che le melanzane, con pepe, sale e olio, ma danno poco e cattivo nutrimento.

In: DURANTE Castore, Herbario novo. Roma, Bericchia e Tornieri, 1585.

Questi frutti detti pomodoro sono quasi simili alle mele, si coltivano nei giardini e si cuociono nel modo seguente: pigli li detti pomi, tagliali in pezzetti, mettili in tegame con olio, pepe, sale, aglio trito e mentuccia di campagna.
Li farai soffriggere col rivoltarli spesso e se ci vorrai aggiungere un poco di molignane tenere [melanzane] e cocuzze lunghe [zucchine] ci faranno bene.

In: GAUDENTIO Francesco, Il Panunto toscano. Bologna, Forni, 1990.

[I pomodori…] per servirli bisogna prima rotarli su le braci o, per poco, metterli nell’acqua bollente per toglierli la pelle. Se li tolgono i semi o dividendoli per metà, o pure facendoli una buca..

In: CORRADO Vincenzo, Il cuoco galante. Napoli, Raimondi, 1773.

XIX secolo

Altri cantin la Fava, ed il Finocchio,
le Pesche, l’Insalata, e l’Uova sode,[…] ch’io sol bramo cantar de’ Pomidori,
poiché tal frutto d’alta lode è degno,
e merta stin1a, riverenza, e onori.[…]

Se coltivar tal pomo si potesse,
ed in ogni stagione, e luogo, e clima,
d’ogni Uom saria delizia, ed interesse.[…] E quando poi ci condirete il riso,
avrete tosto un piatto originale
da portarvi di botto in Paradiso.
Quando vuolsi mangiare cibo immortale,
conditeci a ribocco, i Maccheroni,
piatto solo da Prence, e Cardinale,[…] Ed allo spiedo fatelo arrostito,
che mangerete un piatto prediletto
col Sale, Pepe, ed Olio ben condito.[…] Di questo cibo non si dà il migliore
se Fricassèa, e Ragù ci condirete:
ed ai Fagioli appresta almo sapore.

Capitoli berneschi in lode de’ maccheroni e de’ pomidori, Napoli, R. Marotta e Vanspandoch, 1831.

In una lettera indirizzata all’amico Luigi Germi, Niccolò Paganini confessa (1838): “Ogni giorno di magro e anche di grasso, sopporto una salivazione [ossia, ha l’acquolina in bocca] rammentando gli squisiti ravioli che tante volte ho gustati alla tua mensa”. Va pazzo per i ravioli come tutti i genovesi, il grande Virtuoso; e l’anno dopo, trovandosi a Nizza quasi coi piedi nella fossa, ha tuttavia la flemma di mettersi a tavolino e di vergare con mano tremante la ricetta richiestagli, relativa al vero ripieno dei ravioli alla genovese. La descrizione, non scevra di errori d’ortografia e di sintassi, è minuziosa ma perfetta:
Per una libra e mezza di farina due libre di buon manzo magro per fare il suco (sic). Nel tegame si mette del butirro, indi un poco di cipolla ben trittolata (sic) che soffrigga un poco. Si mette il manzo e fare che prenda un po’ di colore. E per ottenere un suco consistente si prende poche prese di farina, ed adagio adagio si semina in detto suco affinché prenda colore. Poi si prende della conserva di pomodoro, si disfa nell’acqua, se ne versa entro alla farina che sta nel tegame e si mescola per scioglierla maggiormente, ed in ultimo si pongono entro dei fonghi secchi ben tritolati e pestati ed ecco fatto il suco.
Ora veniamo alla pasta per tirare le foglie senza ovi. Un poco di sale entro alla pasta gioverà alla consistenza della medesima.
Ora veniamo al pieno. Nello stesso tegame con la carne si fa in quel suco cuocere mezza libra di vitella magra, poi si leva, si tritola e si pesta molto. Si prende un cervello di vitello, si cuoce nell’acqua, poi si cava la pelle che copre il cervello, si tritola e si pesta separatamente come come (sic). Si prende un pugno di borage chiamata in Nizza Boraj, si fanno bollire, si premono molto, e si pestano come sopra. Si prendono tre ovi che bastano per una libra e mezza di farina. Si sbattono e uniti e nuovamente pestati insieme tutti gli oggetti sopra nominati, in detti ovi ponendovi un poco di formaggio parmigiano. Ecco fatto il pieno.
Potete servirvi del cappone in luogo del vitello, dei laccetti in luogo di cervello, per attenere un pieno più delicato. Se il pieno restasse duro si mette del suco. Per i ravioli la pasta si lascia un poco molla. Si lascia per un’ora sotto coperta da un piatto per ottenere le foglie sottili.

In: MORBELLI Riccardo, Il boccafina, ovvero il gastronomo avveduto. Roma (I), Casini, 1967, p. 223.

Francesco de Bourcard coordina la raccolta Usi e costumi di Napoli e contorni descritti e dipinti. Si tratta di una raccolta di saggi di vita napoletana compilate riunendo scritti di Mastriani, Rocco, Delbono e altri e ottenendo un “Teatro” della Napoli dei vichi e dei bassi alla vigilia dell’arrivo dei piemontesi. Naturalmente, la cucina di casa e di taverna, ha posizione preminente, pari all’eterna fame insoddisfatta di Pulcinella. Da ciò per il lettore attento l’occasione di poter risalire a ricette veraci, più spontanee di quelle del Duca di Buonvicino. Così si apprende che i veri maccheroni alla napoletana sono quelli tratti dalla caldaia con il forchettone (mai lo scolapasta!) messi ancor grondanti nel piatto; e conditi “con bianco formaggio grattugiato tratto da una piramide, ornata da strisce nere di pepe e avente al culmine un pomodoro o un fiore rosso”.

In: DAL BONO Carlo Tito, La taverna, in DE BOURCARD Francesco, Usi e costumi di Napoli e contorni descritti e dipinti. Napoli (I), Gaetano Nobili, 1853.

Mio caro Torelli,

affrontiamo la grande questione, la questione nazionale, la questione dei maccheroni; so bene che quel che vi dirò sui maccheroni a Napoli mi renderà ancor più impopolare dei miei articoli contro il municipio, dei miei attacchi contro la camorra, recentemente contro il giurì, e del mio scarso rispetto per la consorteria.

Ma non importa. Sarà pur per qualcosa che, essendo un giorno sceso in un pozzo senz’acqua – come lo sono tutti i pozzi di Napoli per cinque mesi all’anno – ne sono uscito con lo specchio che vi aveva lasciato cadere la verità, stanca di essere violata e rifugiatasi in cielo.

Ora, ci siamo resi conto di una cosa: ogni volta che abbiamo combattuto per la lealtà, per il patriottismo, per l’arte, per la verità insomma, di cui possediamo l’arma, nelle nostre mani questo specchio si è dimostrato ancor più terribile dei famosi specchi di Archimede che fulminavano cavalli e cavalieri colpiti dai loro bagliori, e che incendiavano le navi di Marcello a tre miglia dalla costa. Continuerò dunque a combattere con questo mio specchio tutti i pregiudizi sociali, artistici, municipali, politici e financo culinari.

Una volta assunto quest’impegno, sono costretto a dire che non si mangiano certo a Napoli i migliori maccheroni, cioè i maccheroni meglio preparati, e che la miglior ricetta non è Rossini a possederla, quella ricetta che, attraverso la Sicilia, fu trasmessa dai buongustai di tutti i tempi, da Lucullo a Pulcinella.

Non si chiede ancor oggi a ogni viaggiatore che torni dalla moderna Partenope:

“Avete visto il teatro San Carlo?”.
Il viaggiatore risponde:
“Sì, l’ho visto, tanto che è chiuso”.
“Allora l’impresario non è più Barbaja?”.
“No, è il signor Pusterla”.
E dato che s’ignora chi sia questo Pusterla, si lascia cadere il discorso.
Però l’interrogante si dice: “Strano, pensavo che il teatro San Carlo fosse il primo teatro del mondo”.
Pregiudizio! È invece l’ultimo d’Italia. Bene! I pregiudizi sul San Carlo e sui maccheroni, come altri, li ho avuti in giovinezza. I pregiudizi sono i frutti dell’albero della vita: man mano che la morte sale per i rami, i rami seccano e i frutti cadono. Quando il rude boscaiolo è arrivato in cima, non ci son più pregiudizi, ma l’albero è morto.

Dunque, vittima del pregiudizio sui maccheroni e avendo un giorno alcuni napoletani a cena, scrissi a Rossini chiedendogli di mandarmi la sua ricetta per i maccheroni. Rossini, che mi ha sempre voluto molto bene, poiché sono un fanatico della sua musica, e che preferirebbe certamente che io dicessi male del Guglielmo Tell piuttosto che della sua cucina, Rossini mi rispose:

“Mio caro Dumas, non posso darvi la mia ricetta, è troppo preziosa, ma venite domani a mangiare i maccheroni da me, e, se davvero siete il grande cuoco che si dice, sarete certo in grado di riconoscere gli elementi costitutivi del piatto preferito dal re Nasone”.

E firmò con quel nome melodioso che rappresenta tanti milioni di semibrevi, minime e semiminime, di crome, biscrome e semibiscrome, di bemolli, diesis e bequadri, quanto il mio nome rappresenta milioni di lettere.

Mi affrettai a raccogliere l’invito; bene! davanti agli dei e agli uomini, davanti a Comus e Grimod de La Reynière, i maccheroni di Rossini erano mediocri.

Giudicai inutile esercitare l’intelligenza del mio palato nell’analisi di un piatto che non mi sembrava neppure meritare l’immortalità del brodo nero, poiché non era né buono né cattivo, mentre il brodo nero era esecrabile, feci un segno di assenso con la testa, dissi al gran maestro col tono più gentile del mondo: “Grazie, mio caro Rossini, so tutto quel che volevo sapere”.

E uscendo da casa sua, andai a comprarmi da Truchet il libro di Cavalcanti sulla cucina napoletana. Ecco quel che ho trovato: “Maccheroni al sugo e parmigiano: prendete sedici once di manzo, mettetele in una casseruola con una cipolla media, unite quattro once di lardo, pepe, sale, un pizzico di cannella e di garofano in polvere, fate cuocere girando continuamente, e, quando la cipolla è diventata completamente bianca, cominciate a bagnare con un poco di acqua bollente: quando la carne è diventata bruna, ma non bruciata, aggiungete un’oncia di vera conserva di pomodoro mescolando e bagnando finché non si sarà completamente sciolta; aggiungete infine acqua bollente per ottenere il brodo necessario. Per condire la zuppiera di maccheroni, fate restringere questo brodo, e, quando avrete ottenuto la giusta consistenza, togliete la casseruola dal fuoco e passate il sugo allo staccio; con questo sugo condite quattro libbre di maccheroni, dopo averli perfettamente scolati, e mescolateli nella zuppiera con dodici once di parmigiano grattugiato”. Sono tornato a casa assai pensieroso e mi sono detto: “Ci dev’essere qualcosa di meglio quanto a maccheroni. Se non abbiamo il merito di inventare, almeno perfezioniamo”.

E vi prego di notare che, se mi sono dedicato a quest’ordine di riflessioni, è stato per filantropia, per il maggior bene dell’umanità, per puro amore dell’arte, visto che, personalmente, non posso soffrire i maccheroni.

Ho fatto due o tre prove che sono andate perfezionandosi, e mi sono fermato a questa ricetta, che ritengo la migliore, fino a prova contraria.

Supponete di avere dodici persone a cena e che vogliate cenare alle sei. Occorre che alle undici del mattino, cioè sette ore prima della cena, prendiate:

Quattro libbre di manzo, dalla noce;
Una libbra di prosciutto crudo affumicato, grasso e magro in parti uguali;
Tre libbre di pomodori; Una libbra di cipolloni bianchi;
Timo, alloro, prezzemolo, uno spicchio d’aglio.

Versate sul tutto una mezza bottiglia di vino Sauternes.

Fate cuocere, per tre ore, a fuoco lento, girando di tanto in tanto affinché il prosciutto non si attacchi. Al termine delle tre ore, cioè alle due del pomeriggio, i pomodori sono cotti e le cipolle sfatte; il sugo arriva a coprire la metà del manzo.

Bagnate il tutto con il brodo, cui avrà contribuito una vecchia gallina o gallo, fino a che la sommità emergente del manzo non sia più che un’isoletta grande quanto una moneta da cinque franchi; fate cuocere e restringere per quattro ore, cenere sopra, fuoco sotto.

È il momento di scegliere il tipo di maccheroni; questa scelta richiede una certa riflessione.

Gli uni preferiscono i maccheroni che a Napoli chiamano strangola prete; gli altri preferiscono il tipo macaroncello.

Fate bollire in abbondante acqua, qualunque sia la pasta che avete scelto; occorre salare l’acqua, assaggiate i maccheroni di tanto in tanto, rompeteli tra le dita; i maccheroni troppo cotti non valgono niente; devono, secondo l’espressione napoletana – vedete che siamo eclettici e che prendiamo a Napoli quel che c’è di buono – devono crescere in corpo.

Il grado di cottura è una questione di sensibilità; quando avrete mancato due volte la giusta cottura, alla terza ci riuscirete.

Quando giudicherete cotti i maccheroni, ritirateli dal fuoco, subito dopo versate nell’acqua bollente una caraffa d’acqua fredda, per fermarne la cottura. Versateli in un colapasta in modo da eliminare tutta l’acqua. Avete la zuppiera vuota; accanto alla zuppiera vuota, il parmigiano grattugiato, il sugo di carne, con cipolle e pomodori passati allo staccio, e i maccheroni fumanti. Prendete un pugno di parmigiano, e fatene il fondo della zuppiera.

Su questo strato di formaggio, mettete un letto di maccheroni, sul letto di maccheroni uno strato di sugo di carne, su questo strato di sugo di carne un letto di maccheroni, sul letto di maccheroni uno strato di parmigiano, e così via, alternando formaggio, maccheroni, sugo di carne, maccheroni, formaggio; poi, quando avrete esaurito i maccheroni, versate sul tutto quel che resta del formaggio e del sugo facendo attenzione che il sugo sia sopra il formaggio; infine chiudete ermeticamente e servite nel giro di dieci minuti.

Spero che tutto questo sia chiaro e che, seguendo la mia ricetta, tutti possano preparare i maccheroni come, seguendo le mie indicazioni, tutti possono fare un pollo arrosto allo spago.

Forse, per amor proprio, mio caro Torelli, mi direte che è proprio così che facevano i vostri antenati.

E sia, ma la ricetta è dimenticata.

Dopo Cristoforo Colombo che trova un mondo ignorato, c’è Vasco de Gama che ritrova un mondo perduto.
In mancanza della gloria di Cristoforo Colombo, mi accontenterò di quella di Vasco de Gama. In ogni caso, se conoscete la mia ricetta di maccheroni, è come se conosceste la musica di Porpora, Paisiello, Pergolesi e Cimarosa, senza suonarla.

In: DUMAS Alexandre, Seconda lettera a un sedicente buongustaio napoletano. In Lettere sulla cucina a un sedicente buongustaio napoletano. Milano (I), Archinto, 1997, pp. 14-19.

“Le virtù manducatorie della provincia italiana, ai bei tempi antichi, non hanno avuto la fortuna di salire ai fastigi della poesia internazionale per opera di un Balzac o di un De Coster. Quelle dei baresi raggiunsero la loro storica altezza, per chi voglia saperlo, la sera del 31 dicembre 1887, e trovarono il loro cantore in Davide Lopez, appena ventenne”, il quale in una cena tra amici declamò questa che è una delle sue più congeniali composizioni poetiche, tutta colorita da un vivo sentimento della realtà locale. Anche se prevale un tono di falsetto barocco, non mancano nell’iperbole i toni di una più immediata sincerità realistica.
Tentiamo di dare una versione in lingua della composizione:
Verdi verdi, tesi tesi, / senza spendere assai denaro, / bollenti bollenti, una sorbita / ed il ventre vi rifocillate. // Rossi rossi, al pomodoro, / come tanti fili d’oro, / attorcigliati alla forchetta, / un boccone, ma strafine! // Ed il ventre senza fondo / vi ristora sino in fondo. / L’acquolina fa in bocca / a chi vi vede e non vi tocca. // Olenti con aglio e olio, / con lo spruzzo e lo sgombro son migliori. / Scivolando scivolando ve ne andate / se con le cozze son preparate. // Con le vongole, il profumo / apre l’anima, allarga il cuore, / A timballo, son come cosa inzuccherata! / Sempre buoni con la frittata! // Cotti nel forno, col salmone, / con uno scorfano o il capitone, / tirati al sugo di ragù, li piatti a due a due (si divorano)! // Poi le dita ti lecchi / se vi metti una cotenna; / e se si condiscono con formaggio e pepe, / quanti sono, vai giusto giusto. // Sia col grongo che col maiale / valgon di più di una moglie. / Bianchi, neri, col sugo rosso, / come sono e sono, ti lecchi le labbra! // Ehi! Una ciocca di vermicelli / al chiar di luna e nulla più! / Di fronte a questi vermicelli / ora toglietevi il cappello!

In: LOPEZ Davide, Nuovi canti baresi, Bari (I), Laterza, 1930, pp. 111-113.

Vedi anche: FIORE T., La poesia di Davide Lopez, Rieti, La Lapa, 1954, p. 5.

Per Matilde Serao l’invenzione della pasta si colloca tra sogno e magia negli esperimenti del mago Cicho:

“Cicho era un mago buono. Egli lavorava per la felicità dell’uomo e tale altissimo scopo gli era innanzi agli occhi come una visione animatrice. Alla fine, dopo molti anni di travaglio, egli poté dire di avere raggiunta la sua meta, gridando anche lui la parola del greco Archimede, di fronte a tanta scoperta. Poi, come usano gli inventori, si occupò a vezzeggiare la sua scoperta, a carezzarla, a darle forme svariate e seducenti, a perfezionarla, in modo da poter dire agli uomini: “Eccola qui! Io ve la dono bella e completa!”

Abitava accanto a Cicho il mago, una donna maliziosa, astuta e linguacciuta. La donna si chiamava Jovannella di Canzio ed era moglie di uno sguattero del re. Malvagia e pettegola, Jovannella spiava giorno e notte il vecchio stregone, avendo giurato a se stessa di scoprire i suoi segreti, anche se dovesse costarle la morte. E tanto fece e tanto spiò che un bel giorno vide e comprese tutto.

La nostra fortuna è fatta – disse Jovannella al marito Giacomo e andò dal re a presentare la sua scoperta. In tre ore Jovannella assolse alla sua bisogna: Prese prima fior di farina, la impastò con poca acqua, sale e uova, maneggiando la pasta lungamente per raffinarla e per ridurla sottile, sottile come una tela; poi la tagliò con un coltellaccio in piccole strisce; queste arrotolò a forma di piccoli cannelli e fattane una grande quantità, essendo morbidi e umidicci, li mise ad asciugare al sole.

Quando l’ora del pranzo fu venuta, ella tenne preparata una caldaia d’acqua bollente dove rovesciò i cannelli di pasta: intanto che cuocevano ella grattugiò una gran quantità di quel dolce formaggio che ha nome da Parma e si fabbrica in Lodi.

Cotta a punto la pasta, la separò dall’acqua e in un bacile di maiolica la condì mano mano con una cucchiaiata di formaggio e un cucchiaio di salsa. Così fu la vivanda famosa che andò innanzi al grande Federico, il quale ne rimase meravigliato e compiaciuto; e chiamata a se la Jovannella di Canzio le chiese come aveva potuto immaginare un connubio così meraviglioso e stupendo. La rea femmina disse che ne aveva avuto rivelazione in sogno, da un angelo: il gran re volle che il suo cuoco apprendesse la ricetta e donò a Jovannella cento monete d’oro.

Cicho il mago, passeggiando un giorno per un vicolo di Napoli, fu colpito dal profumo che veniva da un’abitazione sotterranea. Entrò in questa casa, vide una pentola sul fuoco e un tegame, domandò ansiosamente di che si trattava, e seppe dei maccheroni che un angelo aveva rivelati ad una donna, e che erano ormai il cibo di tutta la città. Nessuno sentì più parlare di lui. Com’è naturale, la gente disse che il diavolo aveva portato via il mago.

Ma venuta a morte la Jovannella dopo una vita felice, ricca ed onorata, come la godono per lo più i malvagi, malgrado le massime morali in contrario, nella disperazione, nell’angoscia, confessò il suo peccato e morì urlando come una dannata. Neppur tarda giustizia fu resa a Cicho il mago: solamente la leggenda soggiunge che nella casa di via dei Cortellari, dentro alla stanzuccia del mago, alla notte del sabato, Cicho il mago ritorna a tagliare i suoi maccheroni, Jovannella di Canzio gira il mestolo nella salsa del pomodoro, il diavolo con una mano gratta il formaggio e con l’altra soffia col mantice sotto la caldaia.

Ma diabolica o angelica che sia la scoperta di Cicho, essa ha formato la felicità dei napoletani e nulla indica che non continui nei secoli dei secoli”.

In: SERAO Matilde, Leggende napoletane. Libro di immaginazione e di sogno. Roma (I), Perino, 1895, pp. 49-55.

XX secolo

Li voglio vennere chesti tre cotte
Che songo ll’urdeme, ca è fatto notte.
So vierde e vòlleno ‘sti vermicielle.
Li ttengo tiennere e sciuliarielle…
Mo te li ‘nguacchio de pummarrola,
Nce metto ‘ncoppo lu ppecurino
E ‘na frunnella ‘e vasinicola…
Vaie ‘n Paraviso cu nu Carrino!

In: BOVIO Libero, Allegoria popolaresca dei maccheroni in una acquatinta di F. Galante di Margherita di Savoia (n. il 1884).

da: SADA Luigi, Spaghetti e Compagni. Edizioni del Centro Librario, Biblioteca de “La Taberna”. Bari (I), 1982, p. 75.

È diventata ormai un canto popolare questa esaltazione dei maccheroni, del poeta Pasquale Spina:

Car’ Achitècchia ci li pizzarieddi
uè sai comu si fannu a casa mia
iu ti lu ticu, ma li piatticieddi
l’anchiri curmi curmi a menzatìa,

Ci noni, qua, li agnuni cannaruti,
ca pi li cosi bueni so’ ngurdiusi,
si fòttunu gnincòsia a do minuti,
si llèccunu li piatti e… tu li musi. 

Tre piònuri ti cruessu sitazzatu
sobb ‘alla mattra minti a muntirroni.
Nu cuencu fani a mienzu, sunnazzatu,
cu l’inchi t’acqua piépita ti soli. 

Tempra la pasta cu na manu sola,
cu tutti toi la skani, puei, ti carbu
e, ci iè tosta, minti ti l’arsola
nu picca t’acqua.. . chianu, senza sgarbu. 

Scapùzzini nu picca e stinnicchiata
la faci a pizzarieddi curti e mazzi.
Quannu t’ha fatta l’ùrtima caàta
iè buenu cu li ccùji e li sitazzi. 

Spuama lu ueju, fallu gnuricari
e minti na cutècchia ti cipodda.
Li pummitori zicca a spuragnari…
Ota lu brotu cu no mmisca e ncodda.

E quannu la quatara già sta fervi
li pizzarieddi cala, assutti e tosti.
Cajarda fani l’ampa, comu servi,
e, ci ti brusci, mìntiti ti costi.

Minti lu sali ca scannàji tuni,
scàzzica tuttu e lassa cu si coci
fittantu ca no zicca a fa’ balluni.
Ssàggia lu brotu cu no sia iè doci. 

E quannu l’ha’pruati e so’ tinienti
li cacci, li minestri e puei li cuenzi
cu casricotta mota. Ce sta sienti?
Mintu lu brotu e no pinzari a nienzi. 

Ué, sièntimi, Achitè, siéntimi giustu:
tra pèttuli, purpetti, fai, scarceddi
e nt’alli cosi ti lu meju custu,
sai ce mi piaci a mei? Li pizzarieddi!

La traduzione italiana suona più o meno così:

“Cara Agatuccia se le pizzelle [= orecchiette]/ vuoi sapere come si fanno a casa mia / io te lo dico, ma i piatti / devi riempire colmi colmi a mezzogiorno. // Se no qua i ragazzi golosi, / che delle cose buone sono ingordi / si fottono ogni cosa in due minuti, / si leccano i piatti e… tu le labbra! // Tre manciate di grano grosso setacciato /sopra la madia metti ammonticchiate. / Fa un buco nel centro, poco profondo, / da riempire d’acqua intiepidita dal sole. // Mischia la farina con una sola mano, / con tutte e due la lavori, poi, con garbo / e, se è dura, versa dalla brocca / un po’ d’acqua… piano, con garbo. // Prendi con forza un po’ [di massa] e spianala / la fai a pezzetti corti e magri. / Dopo aver fatto l’ultima lavorazione / è bene allora raccoglierli sul setaccio. // Sfuma l’olio, fallo arrossire / e metti una punta di cipolla. / I pomodori incomincia a spremere… / Gira il sugo in modo che non s’attacchi e si incolli. // E quando la pentola di rame incomincia a sobbollire / butta giù le pizzelle, asciutte e dure. / Fa vivo il fuoco, come serve, / e, se ti bruci, mettiti di fianco.// Aggiungi il sale, quanto tu sai ce ne vuole / rigira il tutto e lascia che cuocia / fin tanto che non incominci a bollire. / Assaggia il sugo, che non sia dolce. // E dopo averle assaggiate e sono sulla tenuta / le tiri fuori le minestri e poi le condisci / con molto cacioricotta. Mi hai capito bene? / Aggiungi il sugo e non pensare a nient’altro. // Ohi, sentimi, Agatuccia, ascoltami bene: / tra le crispelle, polpette, fave, scarcelle / e tra le cose di maggiore gusto, / sai cosa mi piacciono? Le orecchiette!”

In: SPINA Pasquale

da: SADA Luigi, Spaghetti e Compagni. Edizioni del Centro Librario, Biblioteca de “La Taberna”. Bari (I), 1982, pp. 78-79.

C’era una volta una bimba ammalata
Perché mangiava solo insalata!
Invano la mamma le cucinava,
pastina, riso e brodo di fava.
Finché un bel giorno la poverina,
inventò per le una salsina.
Sei pomodori, olio d’oliva,
e già saliva
dalla cucina un profumino,
da lasciar senza fiato ogni vicino.
Tutti annusavano a bocca aperta:
“Ma questa sì che è una scoperta!”
Miei cari bimbi, era stata inventata
Di pomodoro la salsa più amata.

In: CIPRIANI Carmela – CIPRIANI Arrigo, Pappe da favola. Milano, Sperling & Kupfer, 1995.

L’accoppiata Parmigiano-pomodoro, così popolare attualmente, non è documentata a Parma che a partire dal primo Novecento, quando la coltivazione di pomodori iniziò la sua diffusione su vasta scala.
Infatti nel 1913 Antonio Bizzozero, pioniere della modernizzazione dell’agricoltura parmense dichiarò: “state pur certi che i maccheroni al sugo con pomidoro, col relativo condimento di burro di pura panna e Parmigiano stravecchio, diverranno due istituzioni mondiali”. È il caso di dire che fu buon profeta.

In: Agricoltura parmense. Numero speciale de L’Avvenire Agricolo. Parma (I), anno 45, maggio 1937, p. 113.

In un sonetto intitolato Spaghetti House e scritto in quella lingua mezzo inglese e mezzo italiana dei padroni di ristoranti italiani di New York di inizio secolo, se ne fa parlar uno così:
Dica, signor, come li vuole, al dente?
Tomato sauce e parmigiano cheese;
Tutto italiano, sa, pur la padella,
Il basilico, il chef e l’assistente.
Li vendon cotti now in farmacia,
(Figli di un cane!) I mean il drug store,
E in tutti i presto luncheons e luncheonettes
Di questa terra di rabdomanzja.
Ma qui, da me, amico e servitore
D’ogni italiano e d’ogni buon custome,
C’è l’arte culinaria del Paese,
Dove ogni fiore smells e di che odore!
Malinconie, lo so, per questa gente,
Son le parole mie. Ma, never mind,
Ne parleremo un’altra volta a cena…
Monzù: un expresso pel signore… al dente!
Spaghetti House: Casa degli spaghetti, ovvero Trattoria. Tomato sauce: salsa di pomodoro. Cheese: formaggio. Chef: capo-cuoco. Now: adesso I mean: intendo dire. Drug store: farmacia. Presto luncheons: trattorie. Luncheonettes: piccole trattorie. Custome, da customer: avventore. Smells: odora. Never mind: non fa niente.

da: PREZZOLINI Giuseppe, Spaghetti dinner. Milano, (I) Longanesi, 1957; Maccheroni & C., Milano (I), Rusconi, 1998, pp. 58-59.

Lui furibondo sbuffa
“Che minestra scipita”!
Lei singhiozza avvilita…
Quale scenetta buffa!
Entra la cameriera,
riporta la zuppiera.
Passan pochi minuti…
I due non son più muti,
la minestra è mangiata,
la pace è ritornata.
Lei sorride: “Che scema,
soffrir tanto martirio…
bastava un po’ di pomodoro Cirio”.

In: “Domenica del Corriere”, 1927. Poesia inviata da un concorrente al concorso di poesia indetto dal giornale e vincitore del primo premio.

Amico, ho letto il tuo risotto in… Ahi!
È buono assai! Soltanto è un po’ futuro
con quei tuoi: «tu farai, vorrai, saprai!».
Questo è del mio paese, è più sicuro
perché…. presente. — Ella ha tritato un poco
di cipollina in un tegame puro,
V’ha messo il burro dal color di croco
o zafferano (è di Milano!) a lungo
quindi ha lasciato il suo cibreo sul fuoco.
Tu mi dirai «burro e cipolla?». Aggiungo
che v’era ancora qualche fegatino
di pollo, qualche buzzo, qualche fungo.
Che buono odor veniva dal camino!
Io già sentivo un poco di ristoro
Dopo il mio greco, dopo il mio latino
Poi v’ha spremuto qualche pomodoro
Ha lasciato covare chiotto chiotto,
in fin ch’ha preso un chiaro color d’oro.
Soltanto allora ella v’ha dentro cotto
il riso crudo come dici tu.
Già suona mezzogiorno; ecco il risotto
il buon risotto che mi fa Mariù.

Giovanni Pascoli in “La Cucina italiana” 1930, n. 6, giugno, p. 1.

“… l’uomo è un maccherone: però non è sicuro
se riesce mollo mollo o se è di grano duro,
se vuole cacio e burro, o invece è molto amante
di salsa parigina pepata e stuzzicante.
La donna è il pomodoro che aggarba il vermicello:
che gusto, che colore, che tocco di pennello!…”.

In: GAROFALO G. e CAMPANINO M., Maccheroni che passione! (canzone del 1949).

da: MANCUSI SORRENTINO Lejla. Maccheronea. Storia, aneddoti, proverbi, letteratura e tante ricette. Napoli (I), Grimaldi & C., 2000, p. 43.

[…] Ma, naturalmente, prima, due vermicelli. I vermicelli ci vogliono; senza vermicelli, Rafè, un pranzo non è un pranzo. E come ce li facciamo fare? Al pomodoro? O aglio e oglio? O alla marinara, con olive e capperi? Quasi quasi io direi di farci portare mezza porzione in un modo, mezza in un altro, e mezza di rigatoni stufati, no?…

[…] Da dodici anni non tocco più una sola forchettata di spaghetti, allontano con disdegno la zuppiera ricolma di buoni maccheroni stufati o al gratin, non voglio mangiarli nemmeno come ripieno ai peperoni secondo l’antica e gloriosa ricetta del Marchese di Campolattaro. […]

– A dieta? E come? – trasecolai.

Sto a dieta a casa, amico mio. Seggo a tavola, obbedisco a mia moglie bevendo acqua minerale, ingollando nauseabondi brodini, masticando gommosi latticini. Vado a letto come un angiolo di sessantasette anni, ma sazio. Sazio perché la mattina esco con Raffaele, in macchina e con lui me ne vado a zonzo per i dintorni di Napoli. A mia moglie dico che esco per affari ma il solo affare che tratto, con Raffaele, è quest’affare qui (affondò la forchetta nel groviglio di verdure della superba minestra maritata, l’immortalissimo “pignato grasso” di noi napoletani). Mangio maccheroni al forno o lasagna imbottita o pasta e ceci o zuppa di fagioli, mangio soffritto e salsicce, mangio cotiche ripiene di uva passa e pinoli (Ce le mangeremo insieme un giorno?…) oppure mangio cosciotti di agnello o piccioni ripieni e saraghi al forno e orate ai ferri e triglie al cartoccio, e bevo. Bevo, amico mio: Mondragone e Solopaca, Asprinio e Monte di Procida, Gragnano e Vesuvio, bevo, beviamo, io e Raffaele, povero vecchio che per amor mio si sacrifica anche lui. Poi ce ne torniamo a casa, qualche volta dico a mia moglie: “Ma, Teresa, tu non badi alla mia dieta! E’ meglio che io non faccia colazione, lasciamo stare, la salute prima di tutto”. Così da dodici anni io rendo felice mia moglie, lascio tranquilli i miei figli, rendo orgoglioso il mio medico che mi batte una mano sulla spalla e mi dice: “Vedete, carissimo don Michele, a che serve la dieta? A tenervi in vita sano e felice, allegro e in carne”. Non sa che a tenermi in vita non è la dieta, è il piacer mio di trasgredire agli ordini, il piacere di mangiare quanto mi piace, come mi piace, ciò che mi piace e al diavolo tutto il resto, sono sciocchezze. Ma queste salsicce sono superbe, non trovate?

– Trovavo: salsicce sovrane, peperoni di gran classe, e le anguille?

Sentite a me, credete alla mia esperienza. La vera dieta è questa. Io ho anticipato il Natale (è vero Raffaele che abbiamo anticipato il Natale?) e adesso posso star tranquillo a casa, all’ombra del Presepe a vedere i miei divorare tacchini farciti e capitoni fritti, aragoste e pasticci e insalate di rinforzo e sosamielli e mostaccioli e rococò e bere spumante. Che m’importa? Io sto a dieta, a casa. Ce li facciamo portare due maccheroni, aglio e oglio e peperoncino rosso? Vi piacciono. signor mio? E allora, su, se volete campare almeno sessantasette anni, la sola medicina sia per voi un bel piatto di maccheroni.

In: STEFANILE Mario, Natale per signore malato, in STEFANILE Mario, Invito ai Maccheroni. Napoli (I), Montanino, [1950], pp. 41-51.

“… e stanno per giungere i maccheroni, già ne sentite l’odore, già una mano gentile vi colloca all’altezza del cuore la più straordinaria trovata culinaria che conti e vanti la storia del mondo. Il momento è solenne: non lo sciupate, per carità, con un gesto violento, con un colpo di tosse, Con un pensiero irriguardoso. Ma impugnate invece con la destra la forchetta, lasciate stare il cucchiaio inutile, affondate bocca naso mento nella fumante matassa, nell’incomparabile groviglio e pensate che anche voi, finalmente, siete chiamato alla mensa degli Dei per dividere il nettare al pomodoro…
… è così schietto e saporoso modo di condir le magnifiche paste di Gragnano o di Nocera che non occorre lodar altre doti ma soltanto consigliarle, queste linguine aglio e olio al forestiero…”.

In: STEFANILE Mario, Partenope in cucina. Napoli (I), L’Arte Tipografica per Azienda Autonoma di Soggiorno di Napoli, 1954.

Un grande poeta, Pablo Neruda, ha scritto le “Odi elementari”, poesie dedicate alle cose che circondano l’uomo, anche minuscole, ma sempre essenziali anche se a volte passano inosservate. Vi si parla anche delle cose della nostra cucina: il pane, la patata, il pomodoro, la cipolla, il carciofo, la castagna, il miele, l’olio, il limone, la mela, la prugna, il cocomero. Così riaffiorano ricordi d’infanzia e dei primi indimenticabili incontri.

In: NERUDA Pablo, Odi elementari, 1954.

ODE AL POMODORO
La strada
si riempì di pomodori,
mezzogiorno,
d’estate,
la luce
si divide
in due
metà
di pomodoro,
corre
per le strade
il succo.
A dicembre
senza pausa
il pomodoro,
invade
le cucine,
entra per i pranzi,
si siede
riposato
nelle credenze,
tra i bicchieri,
le matequilleras (portaburro)
la saliere azzurre.
Emana
una luce propria,
maestà benigna.
Dobbiamo, purtroppo,
assassinarlo:
affonda
il coltello
nella sua polpa vivente,
è un rosso
viscere,
un sole fresco,
profondo,
inesauribile,
riempie le insalate
del Cile,
si sposa allegramente
con la chiara cipolla,
e per festeggiare
è lasciato
cadere
l’olio,
figlio
essenziale dell’ulivo,
sui suoi emisferi socchiusi,
si aggiunge
il pepe
la sua fragranza,
esalta il suo magnetismo:
sono le nozze
del giorno
il prezzemolo
issa
la bandiera,
le patate
bollono vigorosamente,
l’arrosto
colpisce
con il suo profumo
alla porta,
e ora!
andiamo!
e sopra
il tavolo, nel mezzo
dell’estate,
il pomodoro,
astro della terra,
stella
ricorrente
e feconda,
ci mostra
le sue circonvoluzioni,
i suoi canali,
l’insigne pienezza
e l’abbondanza
senza ossa,
senza corazza,
senza squame né colonna vertebrale,
ci offre
il dono
del suo colore focoso
e tutta la sua freschezza.
(Pablo Neruda)

Enrico Caruso, adorato come un benefattore dell’umanità e che, da buon napoletano, era un formidabile divoratore di spaghetti, insegnava di tanto in tanto ai suoi amici americani, fiero com’era della sua reputazione di ottimo cuoco, il modo di cuocerli e di condirli. I giornali riportarono la cosa e la fama di Caruso si rifletté sugli spaghetti. Ogni volta che egli entrava in un ristorante – racconta il pianista Rubinstein – tutti i presenti, che lo riconoscevano subito, sospendevano il pasto per osservare come avrebbe mangiato gli spaghetti: con la forchetta? e tenendola con la mano destra o con la sinistra? o li avrebbe avvoltolati? e come avrebbe tagliato gli spaghetti pendenti? col coltello o col cucchiaio? gravi interrogativi per gli attentissimi spettatori.
Ma una sera Caruso s’infuriò nel vedersi centro di tanta curiosità: gettò sul piatto la forchetta, prese una manciata di spaghetti alla pommarola (col pomodoro) e se la ficcò nella bocca spalancata, macchiandosi faccia, cravatta e vestito.

In: ARTIERI Giovanni, Siparietto. RAI, 2° programma radiofonico ore 23.30, 1955, 6 settembre.

“… davanti a sé, nel basso, una zuppiera colma di spaghetti. Una zuppiera tutta per sé. Dentro c’è un chilo di pasta. E’ stata allora allora scodellata. Infatti fuma. Con una forchetta acchiappa un etto di vermicelli per volta. Gli altri mangiano nei piatti normali. Lui no. Lui è il capo di casa e si serve da una zuppiera. Gli spaghetti sono rosso fuoco. Ogni tanto vi butta dentro il pepe, li copre di pepe. Nella stanza si spande, mischiato, l’odore del pepe e del pomodoro”.

In: PEYRCE Guglielmo, su Il Tempo, 30 Agosto 1955.

Vi va la pappappappa
col popopopopopopomo doro
Viva la pappappappa
che è un capopopopopopola voro
Vi va la pa pa pappapa
col popopomo dor
La storia del passato
ormai ce l’ha insegnato
che il popolo affamato
fa la rivoluzion
ragion per cui affamati
abbiamo combattuto
perciò buon appetito
facciamo colazion.
Viva la pappappappa
col popopopopopopomodoro
… 
La pancia che borbotta
è causa del complotto
è causa della lotta
abbasso il direttor
la zuppa ormai l’è cotta
e noi cantiamo tutti
vogliamo detto fatto
la pappa al pomodor
Viva la pappappappa
col popopopopopopomodoro

Sigla del telefilm “Giamburrasca”, tratto da “Il giornalino di Giamburrasca” scritto nel 1920 da Luigi Bertelli (1858-1920) in arte Vamba, cantata da Rita Pavone
(Nino Rota, Lina Wertmuller)
Arrangiamento Louis BacalovEd. BMG-Ricordi, 1964.

In una città americana [a Salem, nel Massachussets] c’è un monumento a Michele Felice Corne. Questo personaggio è stato reso famoso perché fu il primo ad avere il coraggio di mangiare un pomodoro, sfidando la superstizione secondo la quale era considerato velenoso.

PRESCIUTTI Aurelio, La cucina che passione. Firenze, Il candelaio, 1984.

“A me il passato di pomodoro viene benissimo”.
“E come lo fai?”
“Io pomodorai, tu pomodorasti, egli pomodorò, noi pomodorammo, voi pomodoraste, essi pomodorno!”
“Che cos’è ‘essi pomodorno’?
“Conserva difettosa!”.

In: SILVER, I casi di Zuzzurro e Gaspare. Milano, Glénat, 1985.

È indispensabile che tutti gli esseri e tutti i popoli saggi della terra capiscano che pane e pomodoro è un paesaggio fondamentale dell’alimentazione umana. […] Non fate la guerra, ma pane e pomodoro […] Ovunque e sempre.
Pane. Pomodoro. Olio. Sale.
E dopo l’amore, pane e pomodoro e un po’ di salame.

In: MONTALBÀN, Manuel Vàzquez, Ricette immorali. Milano, Feltrinelli, 1992.

Sembra impossibile che Napoli abbia potuto vivere, per tanti secoli, senza pommarola: ora si prende la rivincita, il cafone interrompe il lavoro per mangiarsi uno di quei frutti (così appare, ma botanicamente è una bacca), aperto in due, cosparso di poco sale; la donna di casa si alza di buon’ora, all’epoca del raccolto, per preparare la conserva, essiccata al sole, per l’inverno. Il trionfo è completo quando nel 1839, almeno in base al codice del Duca di Bonvicino, la salsa di pomodoro, violentemente rossa, densa “concettosa”, si unisce ai maccheroni.

In: ALBERINI Massimo, Storia della cucina italiana, Casale Monferrato, Piemme, 1992.

La scoperta del pomodoro ha rappresentato, nella storia dell’alimentazione, quello che per lo sviluppo della coscienza sociale, è stata la rivoluzione francese. … La cucina Partenopea è una “cucina a luci rosse” per la presenza illuminante sulla nostra mensa di quel meraviglioso prodotto della natura, fatto a forma di lampadina, noto a tutti come il pomodoro Sammarzano.

In: DE CRESCENZO Luciano, Croce e delizia. Milano, Mondadori, 1993.

Ad Amalfi il mare era il nostro cibo. Da ragazzi prima e da giovanotti poi ci siamo nutriti di mare. Alla spiaggia intingevamo il tarallo nell’acqua salsa. Bagnato diventava morbido e saporito. Aspettavamo l’onda e allungavamo la mano. […] Più tardi, al buio, per non farsi vedere, arrivavano le donne a riempire le piccole anfore di terracotta. Entravano in acqua a piedi scalzi, si attorcigliavano la gonna sopra le ginocchia e immergevano la brocca che si riempiva con un rapido gorgoglìo. Ogni tanto arrivava una contravvenzione: era proibito per legge attingere acqua dal mare. Ma, alla fine, il maresciallo della Finanza cedeva alle preghiere e ai segni di rispetto, cancellando la multa. L’importante era che in casa non mancasse mai l’acqua di mare.
Cuocere gli spaghetti mescolando una tazza di acqua salata all’acqua dolce significava dare loro un vigore tale che, conditi con aglio e olio, pomodoro, prezzemolo e peperoncino, non solo mantenevano una cottura “al dente”, al punto che ogni spaghetto faceva rumore cadendo nel piatto, ma acquistavano un sapore di pasta condita col sugo di pesce. Difatti il vero nome di questa minestra è: spaghetti al pesce “fuiuto”, cioè al pesce fuggito. Una perla della cucina povera.

In: AFELTRA Gaetano, Spaghetti all’acqua di mare. Salerno (I), Avagliano, 1996, pp. 60-64.